Nuova Lira? Un mostro politico

Carlo Cottarelli

Perché non ci sono motivi economici per lasciare l’euro. Risposta al dibattito di Zingales

Scusate il ritardo. Mi unisco solo ora al dibattito sull’euro lanciato da Luigi Zingales sulle pagine del Sole 24 Ore. Come gli ho scritto un paio di settimane fa, non intendevo partecipare al dibattito perché avevo già di recente espresso la mia opinione sulla preferibilità di rimanere nell’euro sulle pagine di questo giornale. Ripetere quegli stessi argomenti mi sembrava, appunto, un po’ ripetitivo. Ma la conclusione della prima fase del dibattito, sancita dall’articolo (“L’euro? Una creatura politica”) di Zingales pubblicato sul Sole il 16 maggio, richiede qualche commento.

 

Concordo sulla necessità di recuperare competitività, ma possiamo riuscirci restando nell'euro come fanno Portogallo e Spagna

La principale conclusione del dibattito, scrive, Zingales “è che l’euro è una scelta politica, non economica… Gli unici due argomenti puramente economici a favore dell’euro… che riduce la variabilità dei prezzi e riduce il rendimento dei titoli sovrani, perché li rende più liquidi … [portano] … incerti benefici”. A fronte di questi si contrappongono costi elevati derivanti dalla impossibilità di svalutare: “La mancanza di flessibilità di cambio costringe il nostro paese a ricorrere a deflazioni interne che richiedono lunghi periodi di disoccupazione e recessione. Dal 2008 al 2013 la domanda interna in Italia è scesa del 16 per cento, quanta recessione ancora dobbiamo subire per tornare competitivi?”. La domanda retorica è potente: “Quo usque tandem abutere, euro, patientia nostra?”. Zingales, infine, nota che gli economisti che hanno partecipato al dibattito presentano alcuni argomenti politici per l’adozione dell’euro. Tra questi, quello su cui Zingales più si sofferma è il fatto che l’euro avrebbe dovuto operare come “un busto che forza l’Italia a fare scelte di politica economica che altrimenti non farebbe”. Ma è un argomento che comunque Zingales respinge perché comporta il rischio che il busto indebolisca i muscoli e porti a un rigetto, uno strappo violento che farebbe cadere l’Italia al suolo. Conclude Zingales: “La mia più grande preoccupazione è proprio evitare questo disastro”.

 

Non è il "busto" dell'euro a cingere i governi. Sono le scelte di espansione fiscale della politica in cerca di consenso a creare squilibri

Queste conclusioni non mi convincono per diversi motivi. Primo problema: anche se certamente la scelta dell’euro aveva una forte motivazione politica, aveva anche una chiara motivazione economica, che è poi quella che in passato ha spinto molti paesi a rinunciare alla flessibilità del cambio: influenzare la prevedibilità della politica economica e beneficiare, in questo modo, di un aumento di credibilità. E’ quello che Zingales chiama la teoria del “busto”. Se io rinuncio alla flessibilità del cambio, i miei comportamenti (in termini di politica fiscale e di dinamica salariale) sono vincolati, il che dovrebbe far scendere inflazione, garantire una migliore gestione dei conti pubblici e far scendere i tassi di interesse. Non capisco perché Zingales consideri questa una motivazione politica: è una scelta di politica del cambio che ha chiare finalità economiche. Il problema (e anche qui siamo su terreni ben consolidati di analisi economica) sorge quando la fissazione del cambio fa scendere i tassi di interesse più rapidamente di quanto faccia scendere l’inflazione. In questo caso i tassi di interesse reali (tassi di interesse meno tasso di inflazione) scendono e l’economia si surriscalda, alimentando ulteriormente l’inflazione e facendo perdere competitività al paese. Si può porre rimedio attraverso la politica di bilancio pubblico, tagliando la spesa o aumentando le tasse per moderare il surriscaldamento dell’economia. Se invece si butta benzina sul fuoco con una espansione fiscale, l’inflazione resta più alta che all’estero, la perdita di competitività si accentua, i conti con l’estero vanno in rosso e il paese diventa preda di attacchi speculativi perché gli investitori si convincono che l’accordo di cambio sarà abbandonato. Purtroppo questo è quello che è successo in Italia tra il 2000 e il 2007: i tassi di interesse sono scesi, la dinamica dei costi di produzione è rimasta elevata, la politica di bilancio è diventa più espansiva. E la speculazione ci ha attaccato nel 2011-’12. In altri termini, il busto dell’euro non ha funzionato. Non ha funzionato non perché era scritto che non dovesse funzionare, non per una legge economica universale. Niente impediva, per esempio, di continuare la politica di rafforzamento dei conti pubblici che aveva prevalso negli anni 90 (diamo a Cesare quel che è di Cesare, quella politica l’aveva iniziata il primo governo Berlusconi, mentre il secondo governo Berlusconi condusse una politica fiscale espansiva). Ma non fu così: fu deciso, per consolidare il consenso politico, di aumentare la spesa pubblica e tagliare le tasse. Rivoltando le conclusioni di Zingales, si può dire che l’euro non funzionò per motivi politici.

 

Secondo problema nelle conclusioni di Zingales. Zingales dice che “la mancanza di flessibilità di cambio costringe il nostro paese a ricorrere a deflazioni interne che richiedono lunghi periodi di disoccupazione e recessione”. Questo potrà essere vero al momento (perché abbiamo perso competitività tra il 2000 e il 2007 e ora dobbiamo rimboccarci le maniche e recuperare). Ma non è vero nel lungo periodo, e ricordo che la questione posta da Zingales come oggetto del dibattito è se l’euro potesse essere dannoso all’Italia nel lungo periodo. Quindi, a meno di voler pensare, che anche recuperato il terreno perso attraverso un aumento di competitività, avremo sempre il vizio di voler far crescere i nostri prezzi e salari più che all’estero (e di quanto giustificato dai differenziali di produttività), non c’è un motivo economico per pensare che non possiamo convivere con l’euro. Non c’è, in altri termini, un motivo economico per pensare che si debba ricorrere a periodiche deflazioni interne.

 

Terzo problema: Zingales dice che il rischio del “busto” è quello di poter indurre al suo rigetto: uno strappo violento farebbe cadere l’Italia al suolo. Non so perché Zingales sottolinei questo. L’argomento poteva essere semmai rilevante prima dell’entrata nell’euro. Ora che ci siamo dentro, l’uscita dall’euro costituirebbe proprio quello strappo violento che Zingales vuole evitare. Uno strappo che significherebbe un taglio dei salari reali, come inevitabile per recuperare competitività nel breve periodo attraverso la svalutazione. Uno strappo che possiamo evitare se il recupero di competitività sarà basato su una riduzione dei costi di produzione attraverso riforme strutturali e un pesante taglio della tassazione finanziato da una riduzione della spesa pubblica. Certo, se non lo facciamo, e non lo facciamo rapidamente, allora saranno i mercati a sbatterci fuori.

 

Su una cosa Zingales ha ragione: in una prospettiva di lungo periodo, è difficile trovare motivazioni economiche forti per preferire un regime di cambio fisso a uno variabile, e quindi l’euro alla lira o viceversa. Una quindicina di anni fa, quando ero capo delle missioni del Fondo monetario internazionale per il Regno Unito, il Tesoro britannico pubblicò uno studio che concluse che, in un’ottica di lungo periodo, non c’era una forte motivazione per l’adozione dell’euro in Gran Bretagna. Non sollevai obiezioni. Come ho detto, le motivazioni economiche che portano i paesi a rinunciare alla flessibilità di cambio hanno a che fare con l’acquisizione di credibilità e stabilità, non con motivazioni di lungo periodo. Ma, anche qui, rigirerei il discorso fatto da Zingales: ora che siamo dentro all’euro, esistono forti motivazioni economiche di lungo periodo per preferire un cambio flessibile? Concordo con la necessità di recuperare competitività, ma se ci riusciamo restando nell’euro, come ci stanno riuscendo Portogallo e Spagna grazie anche agli aumenti di prezzi e salari in Germania, non vedo motivazioni economiche per preferire la nuova lira nel lungo periodo a meno di voler pensare che, geneticamente, l’Italia non riuscirà a mantenere i propri costi di produzione (aumenti salariali meno aumenti di produttività) in linea con quelli degli altri paesi europei. Concludo quindi che, in assenza di forti motivazioni economiche, il ritorno alla lira sarebbe una scelta puramente politica.

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