Una fontana a forma di globo, World's Fair Grounds, New York City (foto Wikimedia)

"La globalizzazione non ha aumentato gli squilibri mondiali"

Redazione

“Con questo processo (che riguarda molte ‘comunità epistemiche’) gli stati non escono di scena”. Parla il prof. Cassese

Professor Cassese, mai come nei giorni scorsi in Francia il tema della globalizzazione è penetrato nella politica nazionale. Lei come vede questo nuovo sviluppo?

Guillaume Allegre, un acuto ricercatore della parigina Sciences Po, ha osservato che il secondo turno delle presidenziali francesi, svoltosi con successo il 7 maggio, va interpretato come un referendum sulla globalizzazione. La Francia ha deciso di non chiudere al commercio internazionale e all’immigrazione. La divisione è stata tra apertura al mondo e protezionismo. Aggiungo che si ripete il paradosso dell’Europa: questa non è mai tanto penetrata nelle politiche nazionali come quando è divenuta oggetto di contestazioni e divisioni. Le critiche servono per portare in primo piano la globalizzazione e l’Unione europea, a farne percepire l’importanza.

 
Professore, visto che la globalizzazione è vincente, e che lei se ne interessa da almeno un ventennio, parliamone. I suoi nemici sono molti…

  

E ancora di più gli errori che si fanno nel valutarla. Cominciamo dall’interdipendenza, che ne è la prima componente. Ci sono sempre più questioni che nascono come globali, e che vanno affrontate globalmente. Potrebbero singoli Stati risolvere i problemi del terrorismo globale, o quelli del riscaldamento del pianeta? Dunque, siamo costretti a cooperare, perché facciamo parte necessariamente di un “condominio”.

   

Vi sono, poi, le aree dove gli stati stabiliscono accordi bilaterali e multilaterali di loro spontanea volontà…

    

Oppure sotto la pressione di bisogni dell’economia o delle società. Se vogliamo che il lavoro forzato sia soppresso dovunque, dobbiamo stipulare una convenzione mondiale che lo vieti e creare una istituzione che faccia rispettare il divieto. E lo stesso vale per il commercio dei beni e dei servizi, per la tutela della salute, per l’agricoltura. Questo implica stabilire regolatori globali, gestiti di comune accordo tra gli stati.

  

Quindi gli stati escono di scena.

   

No: questo è un altro e più diffuso errore. Non è vero che l’economia è globalizzata, mentre la politica resta nazionale. Primo: come si fa a distinguere economia e politica? L’una non fa parte anche della sfera dell’altra? I padri dell’Unione europea non pensavano che unendo le economie avrebbero unito le politiche e evitato le guerre nel teatro europeo? Secondo: la globalizzazione riguarda il diritto di avere diritti, cioè la cittadinanza, i rifugiati e il diritto di asilo, il lavoro, il terrorismo e quindi la sicurezza, la salute delle persone (alcune malattie sono state sradicate nel mondo grazie all’Organizzazione mondiale della sanità), l’uso delle risorse marine, il trattamento dei rifiuti nucleari, l’alimentazione e la sicurezza del cibo e tante altre materie. Quindi non è vero che la globalizzazione è guidata da oscure forze finanziarie. Terzo: come aveva preconizzato Kant nel limpido scritto sulla pace universale, il commercio è strumento della pace, perché fondato sul reciproco interesse. Quindi, oggi si stabiliscono legami tra commercio e diritti: pensi solo alle pressioni operate su Myanmar per far rispettare i diritti dei lavoratori. Conclusione: la globalizzazione non è al rimorchio degli interessi finanziari.

  

E gli altri errori?

  

Un altro errore è quello di pensare che la globalizzazione abbia aumentato gli squilibri mondiali. Se milioni di contadini cinesi stanno meglio, questo è dovuto all’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio. Se alcune zone dell’Africa possono disporre di maggiori mezzi finanziari, questo è dovuto al cosiddetto “land grabbing”, all’acquisto da parte dell’Arabia Saudita e della Corea del sud di terre africane per produrre alimenti che vengono consumati in quei paesi. Terre africane vengono così sfruttate, ma in loco affluiscono risorse finanziarie e si creano posti di lavoro. La stessa delocalizzazione, quella contro la quale blatera Trump, porta in paesi con minore sviluppo risorse e lavoro. Insomma, la globalizzazione consente una più equa distribuzione della ricchezza. Si tratta di una ridistribuzione sbilanciata, ma anche efficace.

  

Continui, continui, professore.

  

Altro errore: la globalizzazione è opera di élite, non interessa le popolazioni. Non è vero: riguarda anche i poveri contadini cinesi o indiani, o le poverissime popolazioni africane. E poi riguarda una grande quantità di “comunità epistemiche”, settoriali ma non meno appartenenti alla società, che stabiliscono contatti che vanno fuori dei confini nazionali, dialogano, stabiliscono standard comuni.

Se me lo consente, le indico anche un ultimo errore. Quello che la globalizzazione non riguardi il diritto, perché questo sarebbe sempre figlio dello Stato. Anche qui si ignora l’enorme forza civilizzatrice di tante istituzioni globali, di tanti standard lentamente introdotti, anche se non sempre rispettati, ma che servono a tante popolazioni per non sentirsi sole, per poter invocare anche princìpi superiori, per opporsi ai propri Stati dittatoriali. E’ poco, ma senza di questo molte collettività sarebbero sole nelle mani di un dittatore di turno. Non le pare?

  

Ma è tutto oro quello che riluce?

  

Proprio perché frutto di tendenze che si potrebbero dire spontanee, non programmate, non guidate, la globalizzazione è piena di buchi, incompleta, sbilanciata, carente.

  

Ritorniamo a Macron.

  

Il suo disegno è complesso. Egli vede la possibilità di rianimare l’Unione europea come un primo passo per fare sentire la propria voce nella globalizzazione. Questo spingerebbe il mondo a organizzarsi in aree regionali rette da un equilibrio mondiale tra macroregioni piuttosto che tra stati, secondo il modello disegnato da Kissinger nel suo libro sul “World Order”. Possiamo sperare che questo comporterebbe minori guerre e minori ingiustizie e squilibri?

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