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Se la falsa idea che il cibo industriale fa male diventa religione di stato

Serena Sileoni

La paura che corre dietro questa moda non è la paura per alcuni alimenti o ingredienti in sé, ma è il pallino dei “poteri forti”

Un tempo era la carne di mucca per gli indù, quella di maiale per gli islamici, il sangue per gli ebrei. Ogni religione ha maturato i suoi tabù alimentari. La religione contemporanea vieterà olio di palma, zuccheri liberi, grassi saturi.

 

In cosa creda, questa religione pagana del benessere precauzionale, è difficile dirlo. Più facile è dire in cosa non creda. Tra complottismo e post-verità, il timore che mangiando si faccia del male a noi stessi e al Creato si nutre della diffidenza e della sfiducia per ciò che, paradossalmente, ci ha consentito di vivere più a lungo e in salute: l’industrializzazione della catena alimentare.

 

Nella recente legge sugli sprechi alimentari, alcuni emendamenti presentati dal Movimento Cinque stelle proponevano il divieto di pubblicizzare sulle reti televisive pubbliche e private nelle ore destinate ai pasti prodotti alimentari e bevande contenenti un alto livello di acidi grassi saturi, grassi animali, zuccheri e sali liberi, olio di palma. Altri proponevano che, per le stesse categorie di ingredienti, ci fosse un’etichettatura di pericolo, simile a quella dei pacchetti di sigarette, in quanto potenzialmente (si badi, potenzialmente) dannosi per la salute.

 

Ingerire alimenti è, per definizione, un rischio. Il segreto per vivere 100 anni, come titola un articolo sul sito della Fondazione Veronesi, è “mangiare poco, anzi pochissimo”.

 

Nello stile di vita precauzionale che ormai è un’ossessione, non è una sorpresa che, laddove il cibo abbonda, se la sua percezione è passata da essere fattore di sostentamento a fattore di rischio.

 

La paura che corre dietro questa moda non è la paura per alcuni alimenti o ingredienti in sé, ma è il pallino dei “poteri forti”. Nel blog di Grillo, informando della bocciatura degli emendamenti alla legge sugli sprechi, si è commentato facendo riferimento non ai (potenziali) rischi sulla salute, ma alle lobby che brindano. Il ministro Martina, commentando il divieto di coltivazioni Ogm, non ha parlato di motivi di salute, ma di modello agricolo tipico e differenziato da sostenere. D’altro canto, se i motivi fossero stati di igiene e sicurezza alimentare, non si spiegherebbe perché gli animali allevati possano legalmente essere nutriti con alimenti Ogm.

 

Questa ideologia del “secondo natura”, dimentica peraltro della indifferenza della natura stessa per le cose buone, trascura che proprio l’industrializzazione e quei poteri forti della filiera alimentare hanno fatto non solo il miracolo di moltiplicare i pani e i pesci, ma anche di rendere tutti gli alimenti del mondo disponibili in tempi e a prezzi impensabili in un’economia che non si basi su intensiva produzione e grande distribuzione.

 

Se la religione del salutismo e dell’ambientalismo fosse solo una confessione in cerca di proseliti, basterebbe armarsi di un po’ di pazienza e confidare che torneranno modi e toni più miti degli attuali.

 

Il timore, invece, è che essa diventi una religione di stato. Ne sono indizi le iniziative parlamentari come quelle sopra richiamate, il periodico tentativo di introdurre una tassa sulle bevande gassate, anche di recente anticipato da Repubblica, i programmi della Rai che, nella sua funzione di servizio pubblico, trattano i temi dell’alimentazione con sempre più frequenza e pregiudizio antindustriale, come ha di recente documentato un monitoraggio dell’Osservatorio di Centromarca.

 

Al fondo di queste ossessioni antindustriali sta, come detto, la retorica dei poteri forti, ma anche il desiderio sottaciuto di una profilassi di stato contro i rischi della salute. Anche le ciliegie, a mangiarne troppe, fanno male. Sta a ognuno di noi essere responsabili della propria vita. Anche a tavola.

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