Il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda (Foto LaPresse)

La lezione giapponese per le "banche zombie" italiane

Tommaso Alberini

Un paper di Bruegel suggerisce un approccio determinato sugli Npl, ma qui si è andati a tentoni

 

Roma. Mark Hallerberg e Christopher Gandrud, professori alla Hertie School of Governance dell’Università di Harvard, sono gli autori di un recente articolo accademico per il Bruegel Institute di Bruxelles sul sistema bancario italiano: "How not to create zombie banks: lessons for Italy from Japan", "Come non creare banche zombie: lezioni per l'Italia dal Giappone". Partendo dal presupposto che “esiste un crescente consenso sul fatto che l’Italia stia finalmente iniziando ad affrontare i propri problemi bancari”, i due accademici suggeriscono che il Giappone possa servire da modello al nostro paese per liberarsi dalla zavorra dei prestiti non performanti o deteriorati (Non performing loans, Npls) e “guarire” le nostre cosiddette “banche zombie”.

 

“L’esperienza giapponese indica che per risolvere il problema dei prestiti non performanti bisogna implementare specifiche politiche atte a prendere di petto il problema”. Il primo suggerimento dell’articolo è quello di assicurarsi di avere banche sufficientemente capitalizzate “che possano permettersi di subire perdite in seguito alla svalutazione degli Npls”. In secondo luogo ci si deve assicurare che un’autorità indipendente possa identificare i problemi specifici di ogni singola banca “zombie” italiana e, di conseguenza, coartare soluzioni apposite. Last but not least: servono strumenti adatti a smaltire ordinatamente i prestiti deteriorati.

 

Il problema di questa soluzione non sta tanto nella combinazione forzata dei tre elementi che la compongono, secondo Hallerberg e Gandrud, quanto piuttosto nell’assenza di incentivi a metterle in atto – contemporaneamente – da parte di banche e governi.

 

Se da un lato gli autori dell’articolo nutrono un certo scetticismo sul fatto che il pacchetto d’emergenza da 20 miliardi di euro approvato dal Parlamento possa essere sufficiente – “dal momento che una sola delle banche interessate ne utilizzerà quasi metà” – si aspettano comunque che la misura “aiuterà l’economia: le banche ricominceranno a concedere credito dando avvio ad investimenti e consumi, in un paese che praticamente non cresce dall’inizio degli anni 2000”.

 

Il confronto proposto è con il Giappone di quasi vent’anni fa, quando le banche di Tokyo erano invase dai prestiti deteriorati: nel 2001 gli Npls giapponesi raggiunsero quasi l’8 per cento del totale dei prestiti lordi. Oggi, in Italia, sono circa il 16 per cento. La prima fase della “triplice soluzione”, nell’esperienza giapponese, fu messa in atto tramite una ricapitalizzazione delle combinata tra settore pubblico e privato. La banca centrale giapponese, insieme ad altri istituti di credito privati, creò una nuova banca che potesse assorbire le attività dei due istituti “malati” – la Tokyo Kyowa e la Anzen Bank. Questo primo approccio – soprannominato “Hougachou” dal nome di una festività tradizionale di raccolta fondi in comunità rurali – non fu sufficiente a risolvere il problema per cui si creò, nel 1998, un’agenzia di supervisione finanziaria indipendente tanto dal ministero delle finanze quando dalla banca centrale. Lo scopo dell’ente era di stimolare, accompagnare e verificare la ristrutturazione del bilancio della nuova banca. 

 

 

“Le rivalutazioni aggressive dei bilanci della nuova banca da parte dell’ente regolatore cambiarono gli incentivi agli aiuti alle banche da parte della Banca centrale giapponese e del governo – ricorda l’articolo – a quel punto limitarsi a ricapitalizzare le banche per farle sopravvivere non era più una soluzione fiscalmente percorribile, perché questo significava perdere gli investimenti quando l’agenzia di supervisione finanziaria forzava lo smaltimento del valore degli Npls”.

 

Di tutta risposta, nel 1999, il governo giapponese cambiò radicalmente la sua strategia di approccio alle persistenti debolezze bancarie. Incrementò di 25 trilioni di yen gli investimenti pubblici deputati alle ricapitalizzazioni bancarie e rinunciò – gradualmente – a ricercare investimenti privati di breve periodo. Furono create due società con l’obiettivo di ripulire dagli Npls gli istituti in procinto di fallire: la DICJ’s Housing Loan Administration Corporation e la Resolution and Collection Bank, poi fuse nella Resolution and Collection Corporation (Rcc), una società di management degli asset pubblici con il mandato di comprare e gestire i prestiti deteriorati, sia delle banche insolventi che di quelle solventi.

 

L’agenzia di supervisione finanziaria, nel frattempo, aveva imposto un sistema estremamente rigido di valutazione del credito, abbassando il valore dei prestiti non performanti e disincentivandone l’acquisizione, tramite un sistema di premi al profitto per le banche con i bilanci in ordine.

 

Per questo gli autori mettono l’accento sull’importanza del secondo elemento della soluzione, l’ente regolatore indipendente. La ricapitalizzazione delle banche in assenza di una severa vigilanza sulla ristrutturazione dei bilanci da parte di un ente indipendente, infatti,  risulta, nel migliore dei casi, in un nulla di fatto. Nel peggiore degli scenari, invece, “potrebbe trasferire caratteristiche da banca-zombie a istituti di credito che in precedenza erano sani” trasferendo i problemi di una banca a tutte le altre, quasi come un virus.

 

In una prospettiva comparata che tiene conto di tutte le differenze tra Italia e Giappone, Hallerberg e Gandrud sostengono che il nostro paese sia già entrato nella terza fase del processo di “pulizia” del suo sistema bancario. La ricapitalizzazione di 20 miliardi di euro delle banche, infatti, garantisce la possibilità di “galleggiamento” degli istituti mentre si provvede alla ristrutturazione dei loro bilanci. La Banca centrale europea – “che non ha interessi finanziari nelle banche in questione” – sta invece svolgendo la funzione di ente regolatore indipendente, anche attraverso significative pressioni affinché il governo italiano metta in atto riforme specifiche per ristrutturare e smaltire gli Npls.

 

E’ appunto questa, ora, la vera questione da risolvere secondo i due professori di Harvard: come applicare il terzo punto della “soluzione giapponese” all’Italia. Nel gennaio del 2016 l’Autorità bancaria europea (Eba) ha presentato diverse soluzioni per lo smaltimento dei prestiti deteriorati – inclusa l’istituzione di una società di gestione degli asset a livello nazionale (in Italia si è provato con il fondo Atlante, con scarsi risultati) o a livello europeo – indicando i possibili ostacoli legali che tale società potrebbe riscontrare e spiegando in che modo ovviare alle eventuali asimmetrie informative tra acquirenti e venditori. Cambiamenti legislativi come l’IFRS 9, nuovi principi contabili mondiali, inoltre, potrebbero rendere la vendita di asset a prezzi accessibili per i privati più attraente, secondo i ricercatori.

 

“La speranza – conclude l’articolo – è che questi cambiamenti possano riallineare gli incentivi per l’Italia, sopratutto nel settore pubblico, a ridurre i prestiti deteriorati. E’ probabile che l’Italia abbia compiuto molti degli stessi errori fatti dal Giappone negli anni ’90, ma combinando una significativa ricapitalizzazione con un’audace supervisione indipendente e con strumenti sufficientemente potenti a smaltire gli Npls, può riprendersi”.

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