L'ingresso del Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa di Milano

Oltre Piazza Affari

Banche e immobilismo. I dossier e i tic economici con cui tutti faranno i conti

Renzo Rosati

Perdite arginate in Borsa. Ma il fronte vittorioso del No renderà più difficili alcune riforme necessarie, e presto

Roma. Nessuno si illuda se ieri Piazza Affari non è precipitata e lo spread non è volato oltre i 200 punti dopo il No di domenica al referendum costituzionale. Non è accaduto perché la Banca centrale europea ha intensificato gli acquisti dei Btp, che dall’8 dicembre potrebbero estendersi alle scadenze più lunghe ampliando la quota riservata all’Italia, oggi del 18 per cento. E tuttavia non si può far finta di non vedere come lo spread italiano sia stato l’unico ad allargarsi assieme a quello del Portogallo. Riprende così a salire il rendimento pagato sui titoli a 10 anni, oltre il 2 per cento, il doppio di inizio anno. E questo nonostante che il Tesoro abbia chiuso in anticipo le emissioni di quest’anno; ma nel 2017 dovrà collocare 220 miliardi di debito pubblico, a costi superiori di quanto stimato e soprattutto navigando a vista. La flebo somministrata da Mario Draghi ai Btp, che in ogni caso non durerà troppo oltre la scadenza di marzo, ha a sua volta contenuto le perdite di Piazza Affari, assieme ai programmi automatizzati dei fondi speculativi: Milano però è stata l’unica Borsa in rosso tra Europa e America. Dei 41 titoli del listino principale, ben 13 sono di banche e assicurazioni che i Btp li hanno in portafoglio e risentono direttamente dello spread (oltre che dei loro guai). Le banche sono tornate pesantemente in rosso, anche le più solide come Intesa e Mediobanca. Egualmente l’Eurogruppo ha deciso di rinviare la richiesta all’Italia di misure aggiuntive di bilancio pubblico, in quanto, ha detto il presidente-falco Jeroen Dijsselbloem, “il governo di Roma è adesso in una situazione particolare”. Tuttavia è anche quello un altro rinvio a marzo 2017.

 

In altri termini, la versione minimizzatrice del “Visto? Non è successo nulla”, è falsa. E lo è perché l’Italia non è gli Stati Uniti, dove Wall Street ha brindato alla vittoria di Donald Trump potendolo fare, e neanche la Gran Bretagna, che pure non è per nulla fuori dalle incertezze della Brexit. L’Italia non ha una propria valuta, non è un epicentro della finanza ma è alla sua periferia. Più che produrre investimenti ne è alla ricerca, che si fa spasmodica per alcune banche. E qui si torna ai dossier aperti, ai cantieri che la manovra di bilancio di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan stavano cercando di chiudere, e adesso chissà. Le banche sono il primo fascicolo; la ricapitalizzazione di Mps da 5 miliardi ieri è stata messa in stand-by dagli advisor Mediobanca e JP Morgan; i capitali stranieri che subordinavano l’intervento alla stabilità politica sono fermi. La conversione in azioni di obbligazioni subordinate ha fruttato un miliardo, del quale 400 milioni dei bond di Generali (che però ne ha ritirati 200 dal fondo di salvataggio Atlante). Ora il Tesoro, provvisoriamente maggiore azionista di Mps, può solo sperare. Oppure nazionalizzare la banca in accordo con Bruxelles: ma proviamo a immaginare un passo simile con grillini e leghisti che soffiano sulla retorica del renzismo sconfitto in quanto amico delle banche e killer dei risparmiatori. L’alternativa? La richiesta d’intervento del fondo di salvataggio europeo come ha fatto con successo la Spagna, per pochi mesi, nel 2013: ma occorrerebbero “condizionalità”.

 

Con Beppe Grillo e Matteo Salvini in pieno trip anti euro? E non è tutto. Lo stop del Consiglio di stato alla trasformazione in società per azioni delle banche popolari rischia di far saltare la fusione tra i due istituti veneti al collasso, e si ripercuote su quella delle popolari di Milano e Verona, in acque migliori ma egualmente sottocapitalizzate e che ieri hanno lasciato in Borsa il 7-8 per cento. Quanto alla manovra di bilancio ora al Senato il Tesoro ha bloccato ogni emendamento, ma collegata a quella ci sono egualmente dossier aperti; come i decreti attuativi della riforma della Pubblica amministrazione dichiarati illegittimi dalla Corte costituzionale per il mancato Sì unanime delle regioni; o la scrittura del rinnovo dei contratti pubblici. Il Veneto leghista (unica regione non firmataria) o la Cgil (unica confederazione schierata per il No) rinunceranno a un antipasto della campagna elettorale iniziata alla mezzanotte di domenica?