Mario Draghi in conferenza stampa a Francoforte (foto LaPresse)

Draghi convitato di pietra: ha consigli e conigli nel cilindro

Alberto Brambilla
“L’Europa non è finita con la Brexit”. Il mantra delle riforme e il nuovo dibattito sull’inflazione.

Roma. “L’Europa non è finita con la Brexit”, ha detto il presidente del Consiglio Matteo Renzi al vertice trilaterale con il presidente francese François Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel tenutosi ieri a Ventotene. La priorità, hanno avvertito, sarà garantire sia la sicurezza dei confini interni ed esterni dell’Unione europea, dopo una serie di attentati terroristici in Francia e in Germania, sia la prosperità economica, dopo il distacco del Regno Unito dal blocco. L’isola dove riposa Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori dell’Europa in senso federalista, è stata la prima tappa per i colloqui post Brexit tra paesi Ue per approdare al vertice informale di Bratislava del 16 settembre. Ma in fatto di difesa della prosperità il “convitato di pietra” era Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea. I tentativi dei leader europei di tagliare la spesa statale e di ridurre il debito pubblico non hanno infatti prodotto risultati apprezzabili. Il debito dell’Eurozona, composta da 19 paesi, è salito di circa 3 mila miliardi di euro dal 2007 al 2015 mentre la spesa per investimenti pubblici è calata di 20 miliardi. “Le riforme strutturali – scrive sul Financial Times Michael Heise, capo economista dell’assicurazione tedesca Allianz – sono diventate una ‘bella cosa da avere’ anziché le fondamenta per una crescita sostenibile”.

 

C’è da scommettere che la parsimonia non sarà in cima all’agenda politica: in due anni Italia e Francia, oltre alla Germania, andranno a elezioni; occasione, piuttosto, per promettere più spesa nella speranza di guadagnare consenso. Il presidente della Bce ripete da tempo che “ci sono molte comprensibili ragioni per rinviare le riforme strutturali, ma poche buone ragioni economiche”. Tanto più se è proprio la volontà degli governi a fare la differenza tra un successo e un fiasco delle politiche monetarie iperespansive prodotte dalla Bce a partire dal marzo 2015. Draghi dopo avere salvato l’euro (con la formula “whatever it takes”) nel 2012 ha poi fatto seguire le azioni nel tentativo di dare una scossa all’economia, dispiegando un programma di acquisto pluriennale, rinnovabile, sia di titoli pubblici sia di obbligazioni societarie, affiancato a tassi d’interesse interbancari negativi per spingere gli istituti di credito a prestare anziché trattenere liquidità. La politica monetaria da sola non basta, soprattutto se gli stimoli profusi dalle Banche centrali – vale a Francoforte come a Tokyo con la spompata Bank of Japan – non hanno fluidificato il mercato bancario, anzi i tassi bassi abbattono i margini di guadagno, né incoraggiato il settore privato a investire.

 

Il risultato è che la garanzia della Bce ha funzionato da incentivo per i governi a non intraprendere quasi nulla. Allora se è vero che i banchieri centrali sono l’unica alternativa possibile, come sostiene Mohamed A. El-Erian nel saggio intitolato appunto “The only game in town” (Yale University Press), come reagiranno se l’economia s’indebolisce ancora? A differenza delle istituzioni politiche europee, nella Bce non prevalgono gli istinti nazionali: le decisioni sono prese a maggioranza dal Consiglio direttivo, organo vocato alla ricerca del massimo consenso (Draghi, istruito dai gesuiti, è maestro nel seguire il precetto di Sant’Ignazio  “non prendete mai decisioni in base ad alcuna propensione disordinata”) e i consessi ristretti – come un vertice “in stile Ventotene” – non sono permessi a tutela dell’indipendenza della Bce. Certo però che la capacità di prendere alacremente decisioni condivise serve poco se scarseggiano nuove idee su come mantenere l’economia in galleggiamento. Molti osservatori dicono infatti che le armi della tribù dei banchieri centrali sono oramai spuntate.

 

Tuttavia all’annuale simposio di politica economica a Jackson Hole (Wyoming) – si apre questo venerdì – si cercherà il prossimo coniglio da estrarre dal cilindro. John Williams, presidente della Fed di San Francisco, ha già suggerito di puntare a obiettivi di inflazione più alti del canonico 2 per cento, target deciso dalla Bank of England nel 2003 e seguito dalla Fed (vi è ora vicina), dalla Bce e dalla BoJ (ne sono distanti), così da avere maggiore possibilità di manovra per spingere all’ingiù i tassi d’interesse e contrastare un rallentamento della crescita. “Se sei andato in recessione con il 4 per cento di inflazione e non con il 2, allora l’intera architettura dei tassi deve essere rivista all’insù”, sostiene ad esempio Joseph Gagnon, ex Fed e ora al Peterson Institute. Il superamento dell’obiettivo di inflazione ottimale è già stato suggerito quest’anno dai membri Bce Liikanen (Finlandia) e Praet (Belgio). Ma è da capire se il dogma del 2 per cento potrà essere anche solo discusso, oppure superato e in che modo (la soglia migliore?), e soprattutto se sia efficace o serva soltanto ad acquistare tempo.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.