Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Emerge un obliquo paradigma greco per le banche italiane

Marco Cecchini
La trattativa va. L’Ue vorrebbe ispirarsi alle ricapitalizzazioni di Atene. Renzi schiera Cdp e un piglio polemico. Quali sono i rischi che il governo italiano non vuole correre né economicamente né politicamente.

Roma. Nel braccio di ferro in corso sulle banche tra Unione europea e Italia, la tensione corre sul filo delle dichiarazioni. Ieri il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha lanciato a Roma un ramoscello d’ulivo: “Quando applichiamo le regole lo facciamo tenendo conto delle circostanze – ha detto – Nel caso del bail in è possibile la ricapitalizzazione precauzionale sotto certe condizioni. Dobbiamo trovare una soluzione gestibile”. Ma il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in serata, dopo un incontro con il ministro Pier Carlo Padoan e i vertici della Cassa Depositi e prestiti, non ha rinunciato a una stoccata polemica: “Il problema non sono i crediti deteriorati delle banche italiane, sono i derivati di quelle europee”.  Sul Monte dei Paschi poi “i correntisti possono stare tranquilli, si va verso una soluzione di mercato”. La tensione segnala la durezza delle trattative di Bruxelles.

 

Negli ultimi giorni negli interventi a porte chiuse dei negoziatori europei un nome ricorre sempre più spesso: quello della Grecia. La ricapitalizzazione delle banche greche nell’autunno 2015 infatti viene invariabilmente suggerita dagli uomini della commissaria Antitrust, Margareth Verstager, come il modello di ricapitalizzazione “precauzionale” cui anche l’Italia dovrebbe ispirarsi, il precedente dal quale non si può deflettere. Quando sentono pronunciare quel nome i negoziatori italiani dall’altra parte del tavolo restano basiti: non tanto perché il confronto tra l’ottava economia del mondo e quella di un paese il cui pil non raggiunge quello della Lombardia pare irriguardoso, quanto perché gli addetti a questo tipo di lavori conoscono modalità e contesto nei quali è avvenuto il salvataggio dei quattro istituti sistemici greci. Contesto e modalità che fanno correre qualche brivido lungo la schiena. La ricapitalizzazione degli istituti ellenici (Alpha Bank, Eurobank, Piraeus Bank e National Bank), la terza nel biennio 2013-2015, è avvenuta nell’ambito dell’ennesimo programma di aggiustamento economico concordato da Atene con l’Esm, ovvero lo European stability mechanism, altrimenti detto Fondo salva stati. Ora nessuno dei negoziatori europei dice apertamente che l’Italia debba ricorrere al Fondo salva stati.

 

Ma il punto di riferimento resta comunque disturbante non solo perché evoca scenari di corsa agli sportelli, bancomat razionati, impoverimento, ma perché  non allontana comunque il sospetto che aleggia tra gli stessi uomini del ministero dell’Economia e della Banca d’Italia, cioè che sotto sotto è a un commissariamento soft che si vuole arrivare. Anche le modalità della ricapitalizzazione precauzionale sollevano preoccupazione. Modalità estremamente diluitive per gli azionisti esistenti e penalizzanti per gli obbligazionisti, subordinati e non subordinati, mentre la ricapitalizzazione di ciascun istituto a sua volta è condizionata alla presentazione di un piano di ristrutturazione che deve passare le forche caudine della Commissione. Il punto di partenza nel caso della Grecia è stata la valutazione complessiva (Comprehensive Assesment) dei bilanci bancari fatta dalla Vigilanza Unica della Banca centrale europea, quello che nel caso italiano dovrebbe essere l’esito dello stress dell’Eba, l’Autorità bancaria europea, di fine mese. La vigilanza unica aveva stimato in 14,4 miliardi la carenza di capitale delle quattro banche. Di questi, 3,4 sono stati ottenuti “azzerando” gli obbligazionisti subordinati e non (per le banche italiane salvate lo scorso novembre le obbligazioni subordinate non raggiungevano il miliardo), 5,7 sono stati raccolti sul mercato e i rimanenti 5,3 ce li ha messi lo stato che ha acquistato i bond convertibili emessi dalle banche utilizzando una quota degli 86 miliardi di euro forniti dal Fondo salva stati nell’ambito del programma di aggiustamento.

 

Nel commentare gli esiti dell’intervento “precauzionale”, la Verstager ha sottolineato soddisfatta “il ripristino della fiducia” che esso ha generato. Gli analisti tuttavia rilevano che la penalizzazione degli obbligazionisti ha creato aspettative di ribasso dei prezzi che hanno scoraggiato gli investitori privati e depresso le quotazioni L’operazione si è rivelata poi disastrosa per lo stato. Il fondo Hfsf, che prima della ricapitalizzazione aveva la maggioranza delle quattro banche (nazionalizzate in precedenza), si è visto svalutare la sua quota di partecipazione che nel 2014 era di oltre 18 miliardi a 775 milioni. I prezzi di Borsa sono crollati e le sofferenze sono esplose. Sul piano politico l’operazione ha ulteriormente indebolito il governo di Alexis Tsipras che, a dispetto della sua coloritura di sinistra, è stato additato come amico delle banche e fustigatore dei piccoli risparmiatori dal suo ex ministro Yanis Varoufakis.

 

La Grecia è la Grecia si dirà. Ma questi sono rischi che il governo italiano comunque non vuole correre né economicamente né politicamente. E pertanto è sulla quantità e la qualità del burden sharing che Roma tratta per smussare le asperità della ricapitalizzazione alla greca. Dunque no all’azzeramento delle obbligazioni in mano agli investitori istituzionali e sì a soluzioni più morbide per il trattamento degli obbligazionisti retail. Una penalizzazione dei primi, presenti in forze nel capitale delle banche italiane a differenza della Grecia, li farebbe scappare dal mercato italiano per anni: il sacrificio dei secondi scatenerebbe la rivolta dei risparmiatori. Ma il principio del burden sharing scolpito nelle tavole della supercitata (dalla Commissione) Comunicazione bancaria del 2013 per Bruxelles, più che nella direttiva bail in, è intoccabile. E il negoziato assomiglia sempre di più a una quadratura del cerchio.