Lezione agli intellò di sinistra

Redazione
Il maître à penser dei liberali-liberisti, controcorrente ante-marcia, si spegne. Ma ha seminato bene. Quel che mai il borghese deve concedere è che essi abbiano più autorità per discutere di giustizia, democrazia e progresso sociale.

Straborghese – Pubblichiamo ampi stralci del capitolo “Quel che il borghese deve sapere sugli intellettuali di ‘sinistra’” tratto dal pamphlet di Sergio Ricossa “Straborghese”, uscito nel 1980, a pochi anni dagli eccessi della contestazione, e pubblicato nel 2010 da Ibl Libri.

 


 

 

Riconoscere un tipico intellettuale di “sinistra” non costa alcuna fatica, perché egli si proclama tale ai quattro venti e fa lega solo con chi si proclama tale. Ogni altro intellettuale è per lui un essere inferiore, anzi non è un intellettuale affatto: è un “servo dei padroni” o peggio. Benché facciano mazzo fra loro, gli intellettuali di “sinistra” non mostrano di amarsi. Si premiano a vicenda, ma è un do ut des, solo uno scambio di decorazioni nobiliari: “Dammi la gran croce del merito sociale, e ti darò il collare dell’ordine della giustizia egualitaria”. Questo poi non impedisce loro di insultarsi. Così pure i nobili si sfidavano continuamente a duello; però rifiutavano di battersi con un plebeo, lo ritenevano indecoroso, e similmente gli intellettuali di “sinistra” non scendono a singolar tenzone con un uomo bollato di “destra”. Essi sembrano amare praticamente nessuno se non il proprio io, alla Narciso (fors’anche un po’ alla borghese?). Amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive, e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra sopportabile solo se lo si guarda dall’alto di un palco ben isolato ed elevato. Irreggimentare il popolo, metterlo in fila, comandarlo, tutelarlo anche, ma come si tutelano i minori, finalmente farsi applaudire dal popolo: ecco le seduzioni di chi sta a “sinistra”. Seduzioni a cui è tanto più difficile resistere quanto più gl’intellettuali hanno origini lontane dal popolo. In tal caso, ci si può interessare al popolo come un socio della società per la protezione degli animali può interessarsi agli animali: con intensità e distacco. Il borghese generalmente non può: è ancora nel popolo o ne è appena “emerso” e non lo rinnega. Il populismo dell’intellettuale di “sinistra” non è segno di origine popolare, è segno del contrario. Ben inteso, anche a “sinistra” c’è chi resiste a quelle seduzioni. Per quanto gl’intellettuali di “sinistra” si compiacciano di erigersi a circolo omogeno ed esclusivo (“unitario”), per quanto si sforzino di somigliare a quei teologi che Huygens paragonava ai porci in quanto “se tiri la coda a uno, gridano tutti”, il borghese, a costo di scontentarli, deve distinguerli e separarli a uno a uno. Al solito, così facendo scoprirà, in mezzo a tanti collettivisti, qualche borghese autentico, che non sa di esserlo o lo sa anche troppo e lo nasconde. Fra chi inveisce contro la borghesia, scoprirà i sinceri e i truffaldini, i saputi e gl’ignoranti. Quel che mai il borghese deve concedere è che essi, gli intellettuali di “sinistra”, abbiano più autorità morale o scientifica o di qualunque altro genere per discutere di giustizia, democrazia, elevazione degli umili, progresso sociale, libertà. Non ce l’hanno soprattutto quando pretendono di averla e peccano di orgoglio o ipocrisia. Gli intellettuali di “sinistra”, questo sì, hanno messo a punto un loro linguaggio speciale, oscuro e suggestivo, per sentenziare su quei temi. Il “sinistrese” ne è la riduzione a gergo corrotto e ridicolo. Ma nelle forme superiori, il linguaggio di “sinistra” è uno strumento pericolosamente, subdolamente efficace. Grazie a ciò, ci volle più di un secolo, ci vollero molti lutti, per accorgersi che quasi tutta l’economia di Marx è un mero gioco di parole: più che un castello di carte, un castello di schede da vocabolario. I più perspicaci lo notarono fin dal principio, e tuttavia manchiamo oggi ancora di un metodo completo per demistificare qualunque verbosità del genere. Abbiamo delle note sparse qua e là, per esempio nei Sistemi socialisti del borghese Vilfredo Pareto, il massimo economista italiano, dove si smascherano regole “sinistre”. “Impiegare a favore della propria tesi solo termini associati a una idea di approvazione”. Le associazioni di idee valgono più delle deduzioni logiche. “Le definizioni più oscure sono le migliori. Esse sembrano estremamente profonde, e molti credono di vedervi cose meravigliose, che non esistono se non nella loro immaginazione. E’ semplicemente un caso di autosuggestione e allucinazione”. I termini astratti sono preferibili a quelli concreti: i primi ammettono la perfezione, i secondi no. Le contraddizioni sono lecite in nome della dialettica. Il modo migliore per non essere smentiti è affermare quanto non può essere sottoposto a verifica. L’insensato, ciò che manca di significato, è una delle cose più inoppugnabili dell’intellettualità. Naturalmente, l’arte di imbrogliare con le parole è antichissima e onorata dall’umanità in generale. Invero, non c’è ragione per non ammirare i grandi artisti in qualunque campo, purché non si spaccino per grandi scienziati, grandi filosofi. I trucchi retorici dei sofisti dilettavano i greci purché fossero onesti e dichiarati o sottintesi, innocenti come quelli degli illusionisti o prestigiatori a teatro. Protagora chiedeva ai suoi allievi di pronunciare l’elogio di una cosa qualsiasi e immediatamente dopo la denigrazione della stessa: insegnava perciò a vaccinarsi contro la credulità, la seduzione verbale tanto simile alla seduzione musicale, ma assai più rischiosa. Oggi dobbiamo temere che l’arte si applichi a fini scorretti, e che non si osi denunciarla perché è una grande arte. Pareto cita alcuni brani di Hegel come questo: “Lo Stato è realtà dell’Idea morale, lo spirito morale in quanto volontà sostanziale, apparente, chiara a sé stessa, che si pensa e si sa, e che compie ciò ch’essa sa, nella misura in cui lo sa”. Pareto è Pareto e non teme di dire: “Tutto ciò è incomprensibile e somiglia alle allucinazioni di un sogno”. Ma innumerevoli altri non hanno questo coraggio, altri ancora trovano conveniente per sé imitare lo stile hegeliano, che nel frattempo è divenuto lo stile universale di chi vuole passar per colto al minimo costo. Non solo per suo mezzo si spaccia qualunque idea: di più, si fa “cultura” senza idee. Basta imparare a memoria l’apposita lingua intellettuale, e farla suonare, ciò che è alla portata di tutti, diversamente dalla genialità o anche solo dall’intelligenza. “Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità” (Sciascia).

 

Il non cretino di “sinistra” ama farlo credere, e ci guadagna. Come tutti i dogmatici, ama la cavillatio. Il borghese, che voglia difendersi o meglio attaccare, farà bene a lasciare agli avversari l’arte del bla-bla-bla. Non è arte per lui. Nel carattere borghese c’è un gusto insopprimibile per la concretezza, che è poi quanto gli fa prendere sul serio l’individuo (la realtà) e non il collettivo (l’astrazione). Appunto, eserciti questo gusto e non prenda sul serio la logorrea degli intellettuali di “sinistra”, non se ne lasci invischiare. Ne rida, la collezioni negli stupidari, quando ne incontra un campione ragguardevole. La studi col solo scopo di esprimersi nello stile opposto il più possibile. Miri alla chiarezza, e le sacrifichi i fronzoli; miri alla semplicità, a costo della semplificazione. Segua la lingua di Machiavelli, che della sua opera diceva: “Io non l’ho ornata né ripiena di clausule ample, e di parole ampullose e magnifiche, e di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare; perché io ho voluto o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata”. Ammiri la saggezza della Royal Society, che in un secolo di preparazione alla borghesissima rivoluzione industriale si preoccupava di creare una lingua rapida e precisa, e consigliava per esercizio di ridurre un testo di dieci pagine a dieci frasi di poche righe.

 

Il buon borghese sa fare economia anche di parole, anche di sillabe, come raccomandava Herbert Spencer (quello della privatizzazione della moneta), che nella Philosophy of Style giudicava a questo scopo le parole sassoni meglio delle latine (oggi vorrei aggiungere: le latine meglio delle tedesche). Quello stesso Spencer che preferiva le parole specifiche alle generiche (“la bottiglia” meglio che “il bere”), e lodava la sineddoche (la parte per il tutto), sempre a caccia di quanto si possa afferrare più facilmente e sicuramente. Ma perché cercare lontano, se vicino a noi abbiamo la lingua di Machiavelli? “Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono”: l’argomento, la morale, lo stile, qui tutto riguarda l’individualismo, tutto è borghese (ma Machiavelli non è sempre così, purtroppo). La quadratura mentale porta spesso il borghese alla quadratura dei conti. “Per avere una certezza vale più una misura che un sistema filosofico”, diceva il borghese Vittorio G. Rossi, che pure a suo modo era filosofo. Si possono perciò amare i numeri più delle parole, ma che siano dati contabili verificati, non invenzioni della fantasia. La borghesia non inventa i numeri, le basta di avere inventato il concetto di numero tanti secoli fa, in Mesopotamia, per commerciare meglio il bestiame e il grano. Da allora, le grandi epoche borghesi sono state epoche di contabilità e di statistica, di matematica e di scienza. Misurare per conoscere è obiettivo comune del borghese e dello scienziato. L’Italia e la Gran Bretagna forniscono ottimi esempi. Nel XIII secolo il mercante pisano Leonardo Fibonacci introduceva in Occidente la numerazione decimale e iscriveva il suo nome nella storia della matematica con alcuni ingegnosi giochi numerici. La contabilità moderna fu illustrata dai mercanti italiani del Rinascimento, quelli che l’Alberti consigliava di “sempre avere le mani tincte d’inchiostro”, e teorizzata da Luca Pacioli nel 1494 quale parte dell’aritmetica e della geometria. Leonardo da Vinci, amico di Pacioli, si scomodò a disegnargli le figure: lo ricordino coloro che oggi disprezzano la ragioneria. Più tardi, dal Seicento al Settecento, la Gran Bretagna dei mercantilisti, covando la rivoluzione industriale, fu percorsa simultaneamente dalla mania degli affari e della matematica. Newton stesso, dopo aver ridotto in numeri l’universo, si diede a speculare in un altro senso, nel senso di giocare in borsa: una progetti inconsistenti, ma la libertà e l’opinione pubblica davano ampio spazio a tutti i progettisti. Nessuno condannava l’inventiva e il senso degli affari, l’intraprendenza e la voglia di arricchire. Per confronto, sia concesso di dire che nell’Italia odierna, dove lo spirito borghese è avvilito, molti studenti delle facoltà di economia e commercio non sanno nemmeno più calcolare una percentuale. Quanto agli imprenditori, si sa che la “sinistra” resiste male alla tentazione di sputacchiarli. Così pure, e peggio degli studenti di economia e commercio, certi intellettuali di “sinistra” tanto più disprezzano la matematica o la statistica quanto meno la conoscono. O se non la disprezzano, la usano slealmente ogni volta che si lasciano trascinare dal collettivismo in una lotta antiborghese senza escludere i colpi bassi. La matematica, ahinoi, si presta ai colpi bassi. C’è un “terrorismo matematico”, che consiste nello spaventare l’avversario sparandogli contro raffiche di equazioni, derivate, integrali, logaritmi, matrici, teoremi e corollari. Gli economisti ne sanno qualcosa. Esecrabili errori e sofismi economici e politici si nascondono dietro fitte cortine di formule, che non si possono penetrare se il lettore non si arma di pazienza, tempo e competenza; ma chi ha imbrattato la carta di spauracchi matematici conta proprio sul fatto che il lettore non abbia pazienza, tempo e competenza, sicché “beva” le conclusioni meno potabili come se fosse Einstein a garantirle. Il buon borghese, tuttavia, non si lascia impressionare, e ricorda con simpatia il “breviario” di Alfred Marshall: “Primo, usa la matematica piuttosto come un linguaggio stenografico, che come la molla della ricerca; secondo, attienti alla matematica solo finché giungi ai risultati; terzo, traduci poi i risultati in buona lingua; quarto, illustrali con esempi che abbiano importanza e che riguardino la vita reale; quinto, brucia quindi la matematica; sesto, se il punto quarto non ti riesce, brucia tutto”. Di questi falò bisognerebbe vederne maggiormente in giro.

 

Considerazioni analoghe valgono per la statistica, che alcuni giudicano peggio dello spergiuro. E’ indubbio che con le cifre si può mentire come con le parole, o se non mentire confondere nelle medie le varietà preziose alla borghesia. Per questo è bene diffidare della cosiddetta macroeconomia, dove si fa di ogni erba un fascio: il buon borghese preferisce la microeconomia, che non dimentica mai l’individuo all’origine di ogni fatto sociale. Ma il peggior uso della statistica è quando la si dedica a fini retorici o propagandistici, non per sapere, bensì per far credere ai semplicioni. Allora, le cifre si staccano dalla realtà e si agitano come fantasmi. Peggio per chi crede ai fantasmi: i borghesi non ci credono, vogliono sempre toccare. I borghesi hanno un tale interesse per la fisica, che non hanno quasi più tempo per la metafisica, a meno che sia eccellente. Al contrario, gl’intellettuali di “sinistra” fanno indigestione di metafisica, senza troppo badare alla qualità. […] Come dice Popper a proposito della teoria marxiana del valore, “l’‘essenza’ platonica si è totalmente dissociata dall’esperienza”, eppure la favola che ne risulta ha ammaliato generazioni di intellettuali di “sinistra”: quanto più li avvince è precisamente lo stesso che ai borghesi ripugna in sommo grado, è il leggendario, il mitico, il magico. Mentre i borghesi sono per la vista, gli intellettuali essenzialisti sono per la visione. Arrivati all’”essenza”, si tratta di definirla con parole acconce, evocative e intimidatrici, poi di teorizzarla mediante un sistema vasto e complesso il più possibile di proposizioni o anche di teoremi matematici. La fabbrica del nulla produce scatole rigorosamente vuote, però difficili da aprire, di forma pretenziosa e artificiosa, e sovrapposte così da formare vaste architetture, che si estendono fino a occupare ogni angolo della cultura. Il borghese che vi capiti in mezzo può sentirsi prigioniero fra mura di macigno, sulle quali legge la sua condanna. E invece, per poco che si attenga ai suoi principi senza tentennare, egli si accerta che è macigno di cartapesta, capace di imprigionare solo chi ama la prigione. E’ così; sebbene vi sia una potente industria culturale di “sinistra” che sa difendere con abilità quell’architettura, certo con più abilità di quella mostrata dall’industria culturale borghese per attaccarla. Specialmente in Italia, può succedere che la borghesia distratta o imbelle faccia passare direttamente dalla tipografia ai remainders una grande opera di pensiero liberale come La società libera (The Constitution of Liberty) di Hayek, o attenda trent’anni per tradurre La società aperta e i suoi nemici di Popper, altro capolavoro del genere, che nessuno dei nostri grossi editori ha saputo “scoprire”. E’ il motivo per cui il buon borghese sospetta giustamente che editori e tirature siano grossi per conformismo, e in biblioteca, pur senza esser dandy, egli ha un debole per il raro, l’appartato, l’inopinato. Anche le “scoperte” sa farsele da sé.

 

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