Fuoriuscita dal paradigma socialdemocratico, politiche dell'offerta e fine del neocorporativismo. Bene. Ma tra teoria e prassi…

Stefano Cingolani
Il piglio giusto su Europa e sinistra. Le troppe carenze su spesa pubblica e Pa. Addetti ai lavori a confronto sul manifesto del premier svelato dal Foglio

Forse non l’ha detto perché lo riteneva scontato o per non esasperare un clima interno già infuocato, ma da tutta la impostazione della Renzinomics, anzi del renzismo in sé e per sé, emerge il riconoscimento che una sinistra moderna in Europa deve muovere i propri passi fuori dal paradigma socialdemocratico. Passi incerti, ma inevitabili perché quel modello è finito anch’esso con la fine del comunismo. In fondo era stato un socialdemocratico tedesco a riconoscerlo, il tanto esecrato (a sinistra) Gerhard Schröder. La socialdemocrazia nasce nella Berlino bismarckiana, si trasforma abbandonando il marxismo a Bad Godesberg, muore sotto le macerie del muro. Lo avevano riconosciuto anche Walter Veltroni e Enrico Letta, ma non ne avevano tratto le conseguenze politiche.

 

Il secondo passaggio importante è la priorità della politica dell’offerta. Non che sia ininfluente sostenere la domanda effettiva, dopo sette anni di vacche magrissime è importante, ma un nuovo ciclo di crescita a medio termine può ripartire solo rilanciando l’offerta.

 

Terzo punto che in qualche modo deriva dai primi due, è la fuoriuscita dal neocorporativismo. Anche qui solo Renzi ne ha dato un seguito concreto.

 

Sono tre svolte che danno sostanza alla retorica della rottamazione. Non sempre però Renzi è stato coerente con la sua stessa triade teorico-pratica.

 

1. Primato dell’offerta vuol dire privilegiare la produttività, quindi una politica fiscale che sostenga il lavoro e gli investimenti, si schieri con l’aumento del valore aggiunto, quindi salari e profitti, e colpisca la rendita. Invece si è privilegiato il cerchiobottismo, spargendo le scarse risorse un po’ qui un po’ là, quindi sprecandole.

 

2. La stessa energia mostrata con le confederazioni sindacali, quelle del lavoro dipendente e del capitale, non ha avuto un pendant con le corporazioni dei ceti medi produttivi e improduttivi, a cominciare dal principale blocco antiriformatore, quello dei dipendenti statali (compresi magistrati e insegnanti) e dei ceti che vivono della spesa pubblica.

 

3. Manca un intervento sullo stato sociale che individui un chiaro percorso dal welfare state alla welfare society. Un cammino lungo e pieno di trappole, ma non più rinviabile. La proposta Boeri e il continuo rimettere mani alle pensioni sono la dimostrazione che ci si muove nel vuoto, per continue prove ed errori (anche troppi). C’è bisogno di tempo e di risorse. Aver ucciso la spending review nella culla è una colpa grave. Ma c’è bisogno anche di un dibattito alto, come si suole dire a sinistra, proprio perché la crisi del modello socialdemocratico non ha prodotto alternative valide.

 

4. L’ultima contraddizione, e certo non la meno importante, riguarda il velleitario ritorno dell’intervento statale, salvataggi industriali e bancari compresi. Il fatto che molte privatizzazioni degli anni 90 siano fallite non giustifica il ritorno all'Iri o ancor peggio allo stato ospedale del ventennio ’70-’90 del secolo scorso, quello in cui è raddoppiato il debito pubblico che soffoca il potenziale economico dell’Italia, ne corrompe la vita pubblica, accentua la frattura generazionale.

 

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