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Il tessitore Pötsch per Volkswagen, tra consumatori inferociti e cessioni

Ugo Bertone
Per l'avvocato austriaco in palio non c'è la sostituzione di un motore o la condanna di un reprobo, bensì la riforma, se non la rivoluzione, di un sistena di governance così complicato da rappresentare un caso limite

Milano. Non è facile immaginare esordio più difficile di quello che il destino ha riservato a Hans Dieter Pötsch, dal primo novembre scorso presidente della Volkswagen. Lui, che per natura è un abile diplomatico, capace di mediazioni quasi impossibili dietro le quinte, si è trovato all’improvviso sotto i riflettori dello scandalo bis di Wolfsburg, quello dei dati falsi sui valori di CO2 che riguardano anche 98mila auto a benzina. Difficile pensare che l’avvocato austriaco, 64 anni, ospite assiduo in prima fila al concerto di Vienna a Capodanno, sia l’uomo adatto a riconquistare la fiducia dei consumatori (che ieri in Germania hanno iniziato a chiedere voucher per essere risarciti) o ad avviare le riforme della governance che molti azionisti chiedono ormai a gran voce (mentre ieri continuavano a circolare voci incontrollate su possibili cessioni in Italia, Italdesign o Ducati che sia). Anche perché avrà il suo daffare a sostenere Matthias Müller, il ceo di Volkswagen, ex Porsche, già nel mirino delle autorità dopo che lo scandalo ha investito Porsche, il gioiello da lui guidato fino a poche settimane fa. Soprattutto, sia Pötsch sia Müller rischiano di pagare a caro prezzo il fatto di essere tra i pochi sopravvissuti del “cerchio magico”, quello dei manager che godono della fiducia di Ferdinand Piech, il padre padrone del colosso dell’industria tedesca che si vanta di “licenziare un manager chiunque sia, al suo secondo errore”. Fino a poche settimane era un grande privilegio, oggi rischia di essere un limite. E’ ormai evidente che in palio non è la sostituzione di un motore o la condanna di un reprobo, bensì la riforma, se non la rivoluzione, di un sistena di governance così complicato da rappresentare un caso limite.

 

“La Volkswagen ha la governance più complicata e e confuse che abbia mai visto – commenta Hans Hirt, responsabile del fondo activist britannico Hermes – Non è l’unico caso di una grande azienda in mano a una famiglia. Ma in questo caso bisogna fare i conti con manager dotati di grandi potere assieme a sindacato che operano come azionisti di controllo. Assieme al potere politico locale, per giunta”. Al vertice del sistema c’è un supervisory board così formato: metà dei consiglieri provengono dal sindacato. L’altra metà non brilla certo per indipendenza: quattro su dieci sono membri della famiglia Piech o Porsche, due sono nominati dallo Stato della bassa Sassonia, due dal Qatar, altro grande azionisti. E gli indipendenti? Uno è proprio Pötsch, da una vita in Volkswagen, di cui è stato il direttore finanziario fino a poche settimane fa. L’altra è Annika Falkengren, chief executive della Seb, la banca scandinava che fa da advisor finanziario per Scania, il gruppo dei veicoli pesanti controllato da Wolfsburg.

 

[**Video_box_2**]Insomma, l’indipendenza non è prevista nel dna del colosso tedesco abituato a guide “forti”. Come quella di Martin Winterkorn, la prima vittima del dieselgate, accusato di una gestione troppo accentratrice. Niente di paragonabile al piglio del suo ex protettore Ferdinand Piech che, quando guidava il gruppo, era solito pende le decisioni in privato con i manager per poi comunicarle al board (in cui figura la sua quarta moglie). Con un’eccezione: nel 2005 scelse il capo del personale assieme al sindacato. Insomma, un’azienda particolare, che più volte si è trovata sull’orlo del baratro per questi limiti: nel 1993 (scandalo delle trasferte sexy pagate ai sindacati), nel 2005 (anno della scalata di Porsche a Volkswagen e successivo salvataggio della casa del lusso). In quelle occasioni la crisi è stata superata alla grande grazie al genio creativo di Piech, protagonista tra l’altro della crescita di prestigio del marchio Audi, ma anche garzie all’umile opera di tessitore di Pötsch. A settembre, quando è stato chiamato per prendere il posto di Winterkorn, l’avvocato viennese sembrava la persona giusta per garantire la continuità del sistema: gradito a Berndt Otterlooh, il potente capo del sindacato dei metalmeccanici, vicino ai politici della Sassonia. Soprattutto, fedele esecutore degli ordini di Piech che gusta la propria rivincita. Ma forse la stoia lo ha proiettato in un ruolo troppo grande per lui.

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