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Dàgli al diesel? Perché no

La pagliuzza nell'occhio di Volkswagen e la trave dei regolatori onnipotenti

Luciano Capone
Dalle auto alle medicine, passando per gli aspirapolvere. Ragioni per non cedere al mantra “servono regole più stringenti”. Matthias Müller è il nuovo ceo

Milano. Lo scandalo Volkswagen nella sua gravità e banalità – un software riduce le emissioni durante i test – viene trattato prevalentemente come un caso morale e su queste basi ha travolto i vertici della Casa di Wolfsburg (ieri è arrivato il nuovo ceo, Matthias Müller), intaccato il valore delle azioni dell’azienda e la reputazione di una nazione che fonda il proprio successo su correttezza e rispetto delle regole. Superando la parte più istintiva dell’analisi, la frode Volkswagen può però dirci altro sul rapporto tra regole e mercato. L’economista americano Tyler Cowen fa notare che la vicenda probabilmente è più la punta di un iceberg che una semplice truffa. E a questo punto è più interessante porsi domande sull’utilità della regolamentazione del settore: lo scandalo ci spinge a rispondere dicendo “le regole devono essere più dure”, ma un’altra risposta possibile è che “abbiamo sovrastimato i benefici delle regole”. “Non lasciate che il vostro sdegno morale, che porta verso la prima affermazione, vi distragga dalla seconda”, dice Cowen. Oltre a dare un giudizio su chi bara, se la violazione delle regole segnala un problema sistemico, è il caso di giudicare le regole stesse. Cowen evidenzia come la diffusione dei motori diesel e le norme sulle loro emissioni derivino da un grande piano di sussidi statali, da parte dei governi europei che per anni hanno spinto sul “diesel pulito” al posto della benzina, una scelta politica che è stata di per sé un grosso fallimento nella riduzione delle emissioni, ancor prima che il bubbone Volkswagen scoppiasse.

 

Il tema di un apparente fallimento di mercato che nasconde un fallimento del sistema delle regole riguarda anche un’altra recente notizia che ha provocato forte indignazione: il caso del farmaco anti Aids il cui prezzo è schizzato alle stelle. La storia riportata su tutti i giornali è quella dello spregiudicato ceo di un’industria farmaceutica che ha acquistato in America i diritti di produzione del Daraprim (un farmaco usato nella cura dell’Aids) e da un giorno all’altro ha alzato il prezzo da 13,5 a 750 dollari. Anche in questo caso la reazione più istintiva è stata quella di chiedere norme più restrittive sui farmaci. Ma come ha sottolineato l’economista Alex Tabarrok, della George Mason University, il problema è l’opposto, ovvero l’eccessiva rigidità delle regole. Infatti il principio attivo del farmaco, la Pirimetamina, non è sotto brevetto ed è venduto in tutto il mondo come farmaco generico: in India costa pochi centesimi, in Europa pochi euro. “La questione riguarda la difficoltà di ottenere l’approvazione di farmaci generici negli Stati Uniti”, dice Tabarrok, basterebbe “permettere l’importazione dei generici riconosciuti in Europa”, ma le rigide leggi americane lo impediscono. I due casi, il lassismo dei controlli europei e le barriere non tariffarie americane, suggeriscono che regole più omogenee e mercati più ampi (dice niente il Ttip, l’accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Ue?) diano più garanzie e benefici.

 

[**Video_box_2**]Ma non basta armonizzare le regole se sono troppo pervasive e il mercato rischia di finire prigioniero di regole fatte su misura delle aziende leader. Il problema lo solleva il britannico James Dyson, inventore e proprietario dell’omonima azienda di aspirapolveri senza sacchetto, dalle colonne del Telegraph. L’Ue, sotto l’influenza del manifatturiero tedesco, sempre nell’ambito della riduzione del consumo energetico, testa gli aspirapolveri in laboratori sterili, senza polvere e acari, perché altrimenti le prestazioni dei prodotti tedeschi sarebbero peggiori. Ma i test non corrispondono a ciò che poi accade nella vita reale: “Le regolamentazioni spesso sono una cortina fumogena dietro cui si nascondono i produttori. Sono una forma di controllo che soffoca il progresso”. Regole omogenee quindi, ma poche.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali