L'ex ad di Volswagen Martin Winterkorn (foto LaPresse)

La catarsi delle quattroruote

Perché cambiare i vertici non basterà a placare le critiche a Volkswagen

Ugo Bertone
“Non è arrivato il momento di scegliere la tecnica tedesca?”. Anche questo slogan campeggiava alle spalle di Martin Winterkorn al salone di Francoforte, quando il signor Volkswagen, martedì 15 settembre, annunciava la “nuova èra dell’auto”, mix di elettronica, ecologia, connettività.

Milano. “Non è arrivato il momento di scegliere la tecnica tedesca?”. Anche questo slogan campeggiava alle spalle di Martin Winterkorn al salone di Francoforte, quando il signor Volkswagen, martedì 15 settembre, annunciava la “nuova èra dell’auto”, mix di elettronica, ecologia, connettività. Ma sono stati sufficienti dieci giorni perché il dio dell’auto, una volta compiuta l’impresa di balzare in testa alla classifica mondiale delle vendite (5,04 milioni contro 5,02 di Toyota nella prima metà del 2015) finisse nella polvere del “dieselgate”. Per niente consolato dalla liquidazione che già sta suscitando violente critiche (28,6 milioni di euro più altri 9 come compenso per il lavoro degli ultimi 9 mesi e, forse, un bonus di altri 15 milioni se gli verranno riconosciute, come premio, altre due annualità). Più, naturalmente, un’auto aziendale a vita per non intaccare il tesoretto di quasi 50 milioni che renderanno meno amaro lo “strappo”. Purché l’ingegnere che si vanta(va) di conoscere ogni dettaglio delle vetture sfornate dai 12 marchi del gruppo sappia convincere i non pochi giudici che lo attendono al varco in America e in Europa che lui non ha mai saputo alcunché del software malandrino che per anni ha eluso le autorità antismog americane e non solo. Perché, come ha ammesso il ministro tedesco dei Trasporti Alexander Dobrindt, la manomissione dei test sui diesel riguarda anche l’Europa. E potrebbe riguardare anche altri costruttori, magari Bmw. La nemesi del numero uno ha colpito un gigante dell’auto. Era già successo a Gm o a Toyota, che, una volta conquistato lo scettro, nel 2010 ha visto franare reputazione (e vendite) per una serie infinita di guasti. Ma stavolta la caduta degli dèi è più fragorosa.

 

E dolorosa perché colpisce al cuore “la tecnica tedesca” di cui Winterkorn era l’alfiere più noto (e più pagato). Ma anche la corporate Germania, mix di capitalismo sociale ed efficienza che ha rivendicato a buon diritto la leadership europea. Non basterà eleggere un nuovo ceo, come si accinge a fare oggi il board della società convocato da tempo, ironia della sorte, per confermare il mandato a Winterkorn fino al 2018. L’eletto sarà – salvo sorprese – Matthias Müller, ingegnere, oggi ai vertici di Porsche e assai gradito alla famiglia Porsche. Una scelta all’insegna della continuità, come forse è giusto per dare stabilità a un colosso che da aprile, dopo il conflitto che ha provocato le dimissioni del presidente Ferdinand Piëch, non ha più trovato pace. Ma la staffetta al vertice sarà solo un capitolo della purificazione. Sì, spiega Stefan-Guenter Bauknecht di Deutsche Asset and Welth management, “ci vuole una catarsi. Sì, come esiste nel dramma greco. E’ quello che volete vedere”. Catarsi come rito di fronte al mondo. Qualcosa di diverso dall’ordalia germanica anche se la cerimonia richiederà la caduta di altre teste, tecnici, manager e chi ha avallato l’inghippo. Ma lo scandalo è destinato ad allargarsi, a partire dagli altri Big dell’auto tedesca. Ieri nel mirino dei media è entrata Bmw, sospettata da Auto Bild di pratiche altrettanto truffaldine (con pesanti conseguenze in Borsa). E poi la politica.

 

[**Video_box_2**]Com’era inevitabile, visto lo stretto legame tra Auto e i vertici di Berlino. Anni fa Angela Merkel impose di cancellare dall’ordine del giorno del Consiglio europeo l’approvazione delle nuove regole sulle emissioni delle vetture; diktat che consentì alle Case d’oltre Reno di guadagnare un anno di tempo sull’introduzione di vincoli più stringenti. Ancor più imbarazzo regna tra i socialdemocratici, al governo in Bassa Sassonia, il Land che controlla il 20 per cento di Volkswagen e che rappresenta il primo bacino elettorale di Sigmar Gabriel, vice cancelliere. Basterà invocare una “giustizia esemplare”? Oppure sotto processo finirà “la governance”: una folta rappresentanza sindacale in cda assieme ai politici regionali e alla famiglia Porsche. Il sistema scricchiola: non è stato in grado di impedire lo scandalo, ma sembra inadeguato a fronteggiare gli anni complicati dalla frenata di Cina e Brasile e dal black-out della Russia. Volkswagen, peggior titolo del settore automotive nel 2015, ha una redditività modesta e per produrre un numero simile di vetture impiega 200 mila persone in più di Toyota. Tanti problemi attendono il nuovo ceo, oltre alla catarsi. Speriamo che, per risolverli, non si ricorra (come nelle migliori tragedie greche) al deus ex machina. Ovvero agli aiuti di stato.

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