Tempio Thian Hock Keng di Singapore (LaPresse)

Altro che Atene, chi sogna la democrazia guardi a Singapore

Alberto Brambilla
Domenica la città-stato festeggerà il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza. “Ci sono le condizioni per Singapore di passare dall’essere la vetrina dell’autoritarismo efficiente a esemplare di quella cosa tanto invocata ma quasi estinta: la democrazia”. Scrive Pankaj Mishra su Bloomberg.

Roma. Domenica prossima Singapore festeggerà il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza. Il 9 agosto 1965 nasceva la Repubblica di Singapore, resa indipendente dalla Corona britannica. Ci sarà molto da festeggiare, scrive il commentatore indiano Pankaj Mishra su Bloomberg chiedendosi se “Singapore può salvare la democrazia?”. La città-stato di Singapore è “eccezionale”, così ripetono spesso i suoi leader, come centro globale della finanza, dei traffici commerciali, del turismo e del commercio navale. La commistione di linguaggi – si parla sia inglese sia mandarino – fa di Singapore il paradigma di riferimento per la rinnovata e rampante crescita asiatica.

 

Tuttavia, allo stesso tempo, le ineguaglianze sono in aumento. La minoranza etnica malay è schiacciata dalla predominanza di quella cinese e indiana. Ancora più controverso è il deficit di democrazia: da cinquanta anni governa lo stesso partito. I media sono compiacenti. I politici locali hanno usato a lungo lo strumento della diffamazione per soverchiare i dissidenti e anche per intimidire la stampa straniera. “Ma sarebbe superficiale e anche disonesto giudicare senza chiedersi cosa significa davvero la democrazia oggi – e cosa vorrebbe dire per una piccola città-stato come Singapore. Il che la dice lunga sulla supposta superiorità morale delle moderne democrazie”, scrive Mishra. “La democrazia, infatti, non è al centro del pensiero dei tecnocrati dell’Unione europea e nemmeno dei membri del partito della sinistra radicale greca Syriza. Guerre partigiane, interessi particolari dei lobbisti, e malfunzionamento della politica hanno fatto sembrare gli Stati Uniti la tarda Bisanzio anziché quel paradiso civile visto da Tocqueville”, aggiunge Mishra. La candidatura di Donald Trump alla presidenza, ad esempio, segnala un crescente spazio elettorale per i demagoghi nella più antica democrazia compiuta del mondo. L’India, poi, pigramente descritta come la “più grande democrazia”, ha subìto delle inquietanti mutazioni.

 

“Durante i decenni in cui Lee Kuan Yew, fondatore di Singapore, faceva risorgere la città-stato dalla palude economica, molti esponenti della classe media indiana desideravano avere un leader come lui: un tecnocrate autoritario che potesse prendere grandi decisioni sullo sviluppo economico senza dovere passare attraverso il confuso e disagevole processo parlamentare di delibera, dibattito e creazione del consenso”. Dopo avere flirtato con un primo ministro autoritario, Indira Gandhi, e con i due successori dallo stile tecnocratico, Rajiv Gandhi e Manmohan Singh, la classe media indiana ha trovato il suo leader in Narendra Modi, uno che concentra il potere al vertice vendendo sogni di città intelligenti e pulite e di treni veloci come proiettili. “Modi difficilmente eguaglierà i risultati di Lee Kuan Yew. Nel perseguire gli oppositori ha tuttavia già superato il patriarca di Singapore. Lee ha sì dispiegato leggi sulla diffamazione severe contro i suoi detrattori ma non ha sovvertito la burocrazia genuinamente meritocratica e onesta di Singapore. La campagna in corso contro Teesta Setalvad, uno dei critici più coriacei di Modi, rivela che la destra nazionalista indù non esita a minare le poche istituzioni sacrosante dell’India mentre vengono portati avanti dei regolamenti di conti politici”.

 

Qualsiasi criticismo nei confronti di Singapore dunque, scrive Mishra, dovrebbe riconoscere che è difficile trovare traccia del concetto originario di democrazia nelle sue incarnazioni contemporanee in India, negli Stati Uniti, in Europa. Nella sua forma classica, quella di Atene, la democrazia era un regime politico nel quale l’uguaglianza dei cittadini era presa molto sul serio. L’idea di cittadinanza era di per sé molto restrittiva: escludeva donne e schiavi. Ma i cittadini di Atene beneficiavano di un alto grado di controllo sulle loro vite e un’alta protezione dalle ingiustizie che i loro pronipoti d’oggi possono solo sognare. Il demos, il popolo, ha il potere in assenza di istituzioni che fanno da mediatore nella funzione dei professionisti della burocrazia, del potere esecutivo e del potere legislativo. Al contrario, gli stati democratici d’oggi concentrano troppo potere in poche istituzioni e pochi privati. Senza contare il ruolo dei media tradizionali: inclini al sensazionalismo e proni alle élite, non facilitano discussioni aperte e dibattiti. I social media, poi, sembrano più adatti all’autopromozione e alla calunnia che come arena adatta al simposio democratico. Per quanto riguarda le elezioni periodiche, esse convalidano il sarcasmo di Rousseau secondo il quale gli inglesi erano liberi una volta sola ogni sette anni.

 

[**Video_box_2**]“E’ chiaro ora, dopo decenni di retorica sulla democrazia, che il suo ideale originario – una comunità in cui gli esseri umani vivono insieme senza soverchiarsi a vicenda – può essere realizzato solo, imperfettamente se non del tutto, in piccoli stati. Qui, Singapore ha un enorme vantaggio rispetto alle democrazie centralizzate e disfunzionali. In realtà è una città-stato funzionale, con un relativamente piccolo popolo (5,5 milioni) altamente alfabetizzato, e non ha nemici. Una gestione astuta sembra aver assicurato il suo futuro economico. Può inoltre resistere agli choc che altrove fanno invocare, sia ai ricchi e sia ai non abbienti, l’arrivo di un regime autoritario che faccia pulizia delle storture esistenti”. “Certamente – conclude Mishra – ci sono le condizioni per Singapore di diventare da vetrina dell’autoritarismo efficiente a esemplare di quella cosa tanto invocata ma quasi estinta: la democrazia. I suoi leader sembrano non avere quel senso di urgenza nel cambiare lo status quo”. Ma non è mai troppo tardi per un uno stato nazione di 50 anni che ha ancora tempo per crescere.

 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.