Panoramica dall'alto del campo estrattivo dell'Eni di Elephant, in Libia

Bolle il Mediterraneo

Alberto Brambilla
Renzi e Obama vogliono stabilità per l’area, le aziende pensano a ripartire senza mediazione statale

Roma. Stabilizzare la Libia in preda all’anarchia è stato l’argomento centrale dell’incontro tra il presidente americano Barack Obama e il presidente del Consiglio Matteo Renzi a Washington date le conseguenze positive che ciò comporterebbe per l’intera area mediterranea. Renzi ha detto che “la piena condivisione” di intenti tra i due paesi darà “presto dei frutti”, lasciando tutto all’immaginazione. Le alternative oscillano tra due estremi: da una trattativa dai tempi indefiniti per creare un governo di unità nazionale che muova guerra allo Stato islamico a un intervento aereo di una coalizione internazionale allo scopo di colpire gli avamposti del sedicente Califfato.

 

Nel frattempo una fetta della business community dell’area mediterranea si incontrava a Roma per il primo Strategic Growth Forum organizzato da Ernst & Young, network globale di consulenza aziendale, per capire come aumentare le opportunità di affari nonostante il principale rischio operativo nella macroregione sia l’instabilità politica, seguito dall’accentuata opacità dei rapporti con l’amministrazione pubblica. E’ una macroregione allargata quella rappresentata all’evento che pesa per il 15 per cento del pil mondiale e comprende i paesi che s’affacciano sul Mediterraneo, sponda europea e sponda nordafricana, e si estende fino al medio oriente, ai paesi del Golfo compreso l’Iran.

 

Gli investitori credono che la regione abbia delle potenzialità inespresse frustrate dai conflitti e dalla persistente recessione ma sia più attrattiva della rampante Asia e dell’emergente Africa. Il 51 per cento dei capi azienda attivi nella macroregione vorrebbero investire in quella stessa area che contiene un bacino di persone, pari al 7,1 per cento della popolazione globale, con crescenti necessità e richieste di beni di consumo e di servizi. Le carenze sono spesso comuni a tutti, con varie gradazioni. Riguardano: lo sviluppo delle infrastrutture digitali o per le telecomunicazioni, ci sono infrastrutture fisiche da costruire o riscostruire in un futuro post bellico (il caso libico), è insufficiente la diffusione di strumenti finanziari per le piccole e medie imprese (è il caso egiziano dove il governo privilegia i grandi colossi pubblici), e gli interscambi con i paesi europei sono depressi (è il caso iraniano, particolarmente interessante per le aziende italiane della meccanica e dell’impiantistica che, guardando alle trattative internazionali sul nucleare, sperano nella fine delle sanzioni occidentali al regime ierocratico).

 

L’Italia può esprimere la sua naturale dimensione strategica, eminentemente regionale, proiettandosi sul bacino mediterraneo e all’evento romano, concluso ieri, è percepita simbolicamente come “paese-ponte” e catalizzatore delle aspettative delle 600 imprese partecipanti, secondo gli organizzatori.

 

[**Video_box_2**]Donato Iacovone, Mediterrean managing partner di Ernst & Young, dice al Foglio che l’interesse per la convention rivela la necessità da parte delle imprese che operano in un’area percorsa dai conflitti e caratterizzata da paesi con una macchina pubblica lenta di bypassare le greppie statali per operare al massimo della capacità possibile. “Il problema è superare la difficoltà di dialogo dovuta ai vincoli imposti o generati dai governi. Trovare risorse per finanziare un buon progetto non è più un problema. Un pezzo di strada può quindi essere fatto senza aspettare che si muova la politica. E’ una cattiva abitudine, anche italiana, affidarsi allo stato affinché crei lavoro o faccia crescere le aziende. Il governo può coordinare ma la capacità di dialogo del business, che si dimentica della bandiera, prova che si può fare a meno della mediazione”, dice Iacovone.

 

Quell’Unione mediterranea, in passato evocata con retorica dall’establishment francese, può dunque non richiedere un ombrello politico per sussistere in un ecosistema difficile.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.