La cerimonia della firma del memorandum d'intesa per la creazione dell'Asian Infrastructure Investment Bank, il 24 ottobre 2014 (foto LaPresse)

L'odore dei soldi di Xi Jinping

Alberto Brambilla
L'Europa incentiva la potenza cinese ad accrescere la sua influenza regionale. Washington ringhia e Tokyo trema

Roma. L'odore dei soldi spinge l'Europa a investire capitale e esperienza nella banca asiatica di sviluppo infrastrutturale, la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), organizzazione economica a trazione cinese, rivale nascente della Banca mondiale, osteggiata dagli Stati Uniti e odiata dal Giappone. 

 

Con una decisione irrituale il Regno Unito ha rotto il fronte del "no" la settimana scorsa decidendo di aderire al progetto bancario inaugurato da Pechino un anno fa. E' estremamente raro per Londra prendere una decisione in politica estera così divergente rispetto ai desiderata  dello storico alleato americano, come nota l'Economist. Dagli Stati Uniti non sono arrivate proteste ufficiali, ma solo commenti negativi in forma anonima sulle testate internazionali. Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, oggi rincara la dose e sbertuccia l'Amministrazione Obama senza pietà: l'America risulta "isolata e petulante" di fronte al potere magnetico dello sviluppo cinese voluto dal presidente Xi Jinping.

 

Oggi i ministeri delle Finanze e dell'Economia di Francia, Germania e Italia hanno confermato le indiscrezioni anticipate dal Financial Times sulla rispettiva adesione alla Aiib. La posizione manifestata, a sorpresa, dalle principali potenze europee è un'inversione a "u" rispetto all'indirizzo ritenuto maggioritario all'interno del G7, consesso dei paesi occidentali più industrializzati, Italia compresa, di non volere aderire rimanendo quindi in linea con la strategia americana e giapponese. Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha detto oggi che la Germania, economia egemone d'Europa, sarà un membro fondatore della Aiib.

 

Molti commentatori ritengono che l'adesione da parte dei principali paesi europei possa indispettire gli Stati Uniti che già avevano criticato la governance dell'istituzione per mancanza di trasparenza, affidabilità, rispetto dell'ambiente e altro. Un anonimo diplomatico americano ha detto al Financial Times di essere "preoccupato dalla tendenza a una 'constant accomodation' verso la Cina che non è la maniera migliore per contrastare una potenza emergente", ha detto riferendosi alla presa di posizione britannica.

 

La storica posizione strategica di Washington – Brzezinski docet – di contenere l'influenza regionale di Pechino, coinvolgendola in consessi internazionali più ampi (G8, G20), è a rischio se i maggiori alleati occidentali finanziano la banca che sosterrà gli investimenti in infrastrutture, telecomunicazioni ed energia in Asia. Pechino usa infatti la leva economica, che si manifesta anche nella costruzione di faraoniche infrastrutture, come strumento di "soft power" verso i paesi vicini Afghanistan, Pakistan, India, Corea del nord, Russia.

 

[**Video_box_2**]Per il Council on Foreign Relations, think tank di politica estera con sede a New York e fondato nel 1921, Washington dovrebbe scegliere di aderire anch'essa e premere dall'interno affinché i principali alleati in Asia-Pacifico (Australia, Corea del Sud, finora guardinghi, e Giappone, apertamente ostile) possano avere condizioni d'accesso favorevoli. Sempre secondo il think tank americano, gli Stati Uniti dovrebbero invece scartare le altre due opzioni a loro disposizione. Ovvero, continuare a suggerire agli alleati di non aderire alla Aiib finché le procedure dei meccanismi di governance non saranno trasparenti (sarebbe considerato umiliante); lasciare che la banca si misuri sui suoi meriti e i suoi fallimenti senza giocare alcun ruolo.

 

La Aiib è stata lanciata l'anno scorso come contro risposta alla Banca Mondiale, banca globale di sviluppo di conio americano fondata alla conferenza di Bretton Woods nel 1944, e soprattutto alla Asian Development Bank, banca di sviluppo preminentemente nipponica (al netto di una piccola quota cinese). Il Giappone, senza un intervento dell'alleato americano, rischia di vedere frustrate e oppresse le sue certezze nel sud est asiatico dove negli anni ha trasferito tecnologia, più avanzata di quella cinese, e delocalizzato le sue multinazionali.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.