Banche in mezzo al guado

Perché Renzi usa due pesi e due misure per fondazioni e popolari

Alberto Brambilla
Riforma soft vs riforma d’imperio. Il ruolo chiave di Guzzetti e il “metodo Mps” per corteggiare i capitali esteri.

Roma. Il sistema bancario italiano s’avvia a una maturazione motivata dalla crisi che coincide con l’apertura al capitale degli investitori esteri e passa dalle riforme parallele delle banche popolari e delle fondazioni bancarie. La differenza, in questa trasformazione, sta nel grado di attivismo dell’esecutivo. Il governo Renzi, su impulso della Banca centrale europea, ha spinto i primi undici istituti a trasformarsi in società per azioni entro il 2016. Ieri la Camera ha approvato il testo, con l’aggiunta di un meccanismo anti-scalata temporaneo, che al netto di modifiche verrà convertito in legge dal Senato la prossima settimana. L’Associazione delle banche popolari ha pregato inutilmente di potere presentare una sua proposta di autoriforma, per anni annunciata ma senza effetti concreti. Le fondazioni bancarie, invece, hanno schivato per ora un intervento legislativo.

 

L’Associazione che riunisce e rappresenta le fondazioni (Acri) ha approvato un protocollo di autoriforma confezionato d’intesa con il ministero dell’Economia che vigila sul loro operato. Renzi forse non intendeva sfidare direttamente il dominus delle fondazioni Giuseppe Guzzetti, tant’è che idee decisamente radicali – impedire alle fondazioni di controllare le banche anche assieme ad altri azionisti – prima comparse nelle bozze del disegno di legge sulla concorrenza, ispirato dall’Antitrust, sono state cancellate dal testo definitivo. Un dissidio sarebbe stato indigeribile pure perché le fondazioni sono azioniste, assieme al Tesoro, della Cassa depositi e prestiti, longa manus dello stato in economia.

 

L’autoriforma delle fondazioni, a differenza della riforma governativa delle popolari, non ha nulla di particolarmente traumatico e mette per iscritto i processi già in atto nel rapporto degli enti con le banche. “Un check up della legge Ciampi, istitutiva delle fondazioni quindici anni fa, e che non sempre è stata osservata alla lettera da alcune di loro”, scrive Repubblica. Non potranno concentrare il patrimonio in una sola banca ma dovranno diversificare gli investimenti; non potranno indebitarsi per sostenere aumenti di capitale; non potranno investire in strumenti derivati. Vietate insomma quelle operazioni rischiose che hanno già affossato, fino a farle rischiare il tracollo, Mps. Orma pure la Fondazione Monte dei Paschi è gradualmente  scesa nel capitale (dal 51 al 2,5 per cento odierno) e per farlo ha venduto ai fondi sudamericani, Fintech e Btg, coi quali ha sancito un patto di sindacato che permette di indicare gli organi di vertice. Fondazione Mps è in un certo senso un “modello” per capire la transizione del capitalismo che vede come attori principali i “grandi vecchi” della finanza Giuseppe Guzzetti e il dominus di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli, come scrive la giornalista Camilla Conti in “Gli orologiai” appena pubblicato in ebook (Informant).  “L’obiettivo e l’interesse degli enti – scrive Conti – è quello di avere il tempo necessario per vendere una cospicua parte delle loro quote a investitori selezionati, fare cassa e riportare in equilibrio i conti drenati dalla crisi finanziaria, con l’obiettivo di tornare a svolgere un ruolo attivo sul territorio. […] Perché i tempi sono cambiati. Non è più la politica ma i fondi e gli investitori stranieri che gestiscono le partite. Lo hanno capito anche i ‘vecchi’ poteri, che invece di fare muro stanno cercando di gestire la transizione facendo da catalizzatore di investitori stranieri con funzione non speculativa ma strategica, per trovare un nuovo centro di gravità permanente”. E’ quella “transizione ordinata” predetta da Bazoli in una rara intervista rilasciata non a caso al quotidiano letto dall’establishment finanziario globale, il Financial Times, il 23 febbraio 2014. Una previsione che era un programma.

 

La riforma by Guzzetti prevede anche un limite di massimo due mandati per il presidente e i consiglieri delle fondazioni e impone un anno sabbatico tra un incarico politico e la nomina nel consiglio della fondazione (basta con le “porte girevoli”). S’avvia al tramonto l’epoca degli zar del credito, come Guzzetti stesso d’altronde, ex senatore Dc che resiste dal 1997 alla testa di fondazione Cariplo, azionista di peso di Intesa. Chi potanno essere i successori degli “arzilli vecchietti” se lo chiede anche Camilla Conti nel suo libro ma, al netto del toto nomi più vario, l’impressione è che un degno erede non sia ancora all’orizzonte.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.