Ecco com'è lavorare in tv pur essendo un Mario Monti delle emozioni

Costantino della Gherardesca

Cinque esempi di sana anaffettività che sono considerati difetti

Come tanti miei colleghi della tv, ho cominciato che ero un giovane pieno di sogni e speranze. Oggi, dopo anni di gavetta, sono finalmente diventato un rettiliano in fondotinta. Per questo mi chiedo: come può una persona che ha lavorato a lungo in televisione provare ancora delle emozioni? Oramai nel mio ambiente sanno che non sono interessato a (né capace di) confrontarmi con qualsiasi tipo di sentimento umano, ma ciò non toglie che anche io, a volte, mi debba scontrare con i prepotenti spogliarellisti dell’anima.

 

La mia esperienza con il sentimentalismo è una storia che meriterebbe una rubrica a parte, ma qui mi limito a sintetizzarverla in cinque brevi riflessioni. Delle parabole, se volete, pescate dalla mia formazione di presentatore aspirante aspergeriano:

 

Limiti di età. Durante le riprese del programma che stiamo girando in Africa, sono rimasto colpito dalla vitalità di uno dei protagonisti, un veterano del mondo dello spettacolo. Nonostante abbia trascorso buona parte della sua vita davanti alle telecamere, un giorno, rapito da impulsi primordiali, l’ho visto commuoversi. Stupito, mi sono girato verso un collega e gli ho detto: “Non riesco a capire come una persona della sua età riesca ancora a provare delle emozioni”. Lui è scoppiato a ridere. Io ero genuinamente esterrefatto.

 

Bullismo sentimentale. Questo inverno, mentre presentavo il talent “The Voice”, uno dei tre giudici, Francesco Renga, mi ha ripetuto più volte che sono una persona “arida”. Secondo lui non ero capace di empatizzare con i giovani cantanti in gara. Per come la vedo io, non strapparsi capelli ed evitare scenate tipo Mamma Roma davanti alle telecamere è solo buona educazione. A sostegno della tesi di Renga, va detto che in quel periodo girava un meme che raffigurava i miei quattro stati emotivi durante la trasmissione: emozionato, emozionatissimo, sul punto di piangere e in lacrime. Per tutti e quattro c’era la stessa foto, con la stessa espressione.

 

Ci sono sempre le rape. Maurizio Costanzo ha detto una grande verità: “Far televisione vuol dire prendere palate di merda in faccia, tutti i giorni”. Se hai fatto questo mestiere, non puoi dargli torto. E siccome l’ambiente della tv, in quanto a crudeltà e cinismo, è più vicino a un briefing con Erdogan che a una seduta di pet therapy, mi fido poco quando i miei colleghi ostentano umanità sul palco. Hanno passato anni al fianco di agenti e produttori: la loro empatia è stata asportata come una verruca. Se così non fosse, non sarebbero in tv, ma a coltivare rape in una comune.

 

Il lusso degli aridi. Tempo fa una produttrice, reduce da una gavetta con un’ex conduttrice spaventosamente difficile e contorta, mi ha detto: “Ormai per farmi piangere devi prendermi a coltellate”. Ho provato una grande invidia. Lei, dietro le quinte, può godersi la sua aridità umana in santa pace. Mentre io che vado in scena devo tirar fuori un’intensità espressionista à la Renée Falconetti ogni volta che la ruota della fortuna si ferma sul jolly.

  

Salvate i bambini. Una volta la simpaticissima Franca Leosini, commentando uno di quei programmi in cui si cavalcano le emozioni degli ospiti, mi ha chiesto: “Ma il Moige non può fare qualcosa?”. Raramente ho sentito una connessione più profonda con un’altra persona. Franca e io ci eravamo capiti. Troppe volte l’obiettivo della censura è l’umorismo cinico, che poi è la lingua ufficiale di chi fa televisione. E’ ora che le associazioni che proteggono i minori alzino il tiro e si accaniscano contro chi espone i loro figli innocenti alla volgarità dei sentimenti, svalutando le loro giovani menti e condannandoli a un futuro di degrado sociale.

  

Come avrete capito da queste righe, non considero il mio distacco un problema. Anzi. Da ammiratore di Mario Monti, sono convinto che il mio rifiuto per il sentimentalismo mi faccia onore. Peccato che mi sia venuta la pessima idea di intraprendere una carriera nello spettacolo: l’unico ambiente lavorativo in cui il disprezzo per le esternazioni emotive è considerato un difetto, una lacuna non solo umana ma anche professionale.

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