Una scena di "Per favore, non mordermi sul collo!", film di Roman Polanski del 1967

Il populismo è una bestia che ci azzanna, ancora vogliamo comprenderne le ragioni?

Costantino della Gherardesca

L’esempio di Duterte e Modi. La sinistra e i soliti errori

Quando qualcuno dice qualcosa di poco interessante, piuttosto che sforzarmi di tenere le orecchie aperte, preferisco non ascoltare. Se poi il tizio, pur di farsi sentire, alza la voce e comincia ad agitarsi, chiudo gli occhi e cerco di raggiungere il mio rifugio mentale: un hangar insonorizzato nel quale modelle che indossano tailleur vintage di Claude Montana sfilano all’ombra di imponenti sculture di Anthony Caro.

   

A quanto pare, però, quello di tapparsi le orecchie quando qualcuno dice una stronzata non è più un’opzione possibile. Ignorare la voce di chi non ha nulla da dire è diventato un lusso antidemocratico e decadente, un viziaccio antiegalitario che ti classifica subito come un elitista, un nemico del popolo. Siamo tenuti a sentire ogni campana, a prendere in considerazione anche i punti di vista più infondati e a rispettare le richieste più idiote. Il tutto in nome di un’idea assai distorta di democrazia. Una logica che mi ricorda molto quella dei premi di partecipazione, quei trofei dimessi che si danno a qualsiasi concorrente abbia avuto la decenza di arrivare in orario: “Non sei nemmeno arrivato al traguardo, ma ti sei presentato e avevi le scarpe, quindi ok”. E’ una logica tollerabile in una gara di nuoto per bambini, ma se cominciamo ad applicarla alla vita di ogni giorno e la lasciamo dilagare anche nelle stanze dei bottoni, è la fine. E, inutile dirlo, lo abbiamo già fatto.

  

Non ho mai fatto mistero del mio orientamento politico: ho sempre votato a sinistra fin da quando ero un ragazzo e, nel corso degli anni, mi sono sempre riconosciuto (con diversi gradi di entusiasmo) nella linea e nell’agenda dei partiti progressisti che ho sostenuto. Questo vuol dire che ho creduto al giustizialismo ai tempi di Mani Pulite, ai no-global ai tempi del G8 di Genova e agli internet-enthusiast ai tempi del web 2.0. Se penso a quanto si sono rivelate reazionarie e controproducenti le posizioni che sostenevo, mi vengono i brividi.

  

Mi nascondo dietro la scusa dell’età (ero giovane e ingenuo…), ma in realtà questa tendenza a foderarsi gli occhi di seitan non ha limiti generazionali, visto che anche oggi la sinistra alla quale sento di appartenere continua a commettere i soliti errori. Intercettiamo delle tendenze che non ci appartengono e ci sforziamo di inserirle nel nostro fragile dna. Inesperienza? Masochismo? Buonafede? Desiderio di inclusione? Completa idiozia? Non ho gli strumenti per indicare una causa specifica, ma non posso fare a meno di rilevare che il problema c’è e che – con tutta probabilità – continuerà a presentarsi nei secoli dei secoli. Abbiamo accolto tra le nostre fila (e nel nostro ingenuo cuoricino) forcaioli mascherati da uomini di legge, nazionalisti camuffati da contadini a chilometro zero e manipolatori informatici travestiti da anarchici digitali.

  

Di questi tempi, per esempio, sta capitando col populismo: un’immane ondata di merda nella quale – per galateo parlamentare – ci ostiniamo a vedere del buono. Anziché allarmarci e correre ai ripari davanti a questa insorgenza fascista, continuiamo a parlare di “legittimo sdegno popolare”, di “gente che non ne può più” e di “comprensibile incazzatura”.

  

Anche se la realtà dei fatti smentisce tutte le ansie di questa massa di paranoici, noi anime belle della sinistra italiana sentiamo il dovere di annuire davanti alle loro stronzate. Gli effetti positivi dei vaccini sono infinitamente superiori rispetto ai rischi inventati da un manipolo di mamme dotate di connessione internet? Fa niente, meglio sguinzagliare dei giornalisti (senza alcuna formazione scientifica) a seminare il dubbio a botte di “e se avessero ragione loro?”. Il numero dei crimini è in costante diminuzione a dispetto di qualsiasi previsione apocalittica? Che importa, questo non ci impedisce di sentire il dovere morale di comprendere e amplificare le paure (completamente infondate) dei cittadini. Siamo tra i paesi europei con la percentuale più bassa di immigrati sul totale della popolazione? Chi se ne fotte! Ogni giorno dobbiamo rassicurare i razzisti sul fatto che i loro preziosi presepi e crocifissi saranno sempre salvaguardati.

    

Ormai la gestione della cosa pubblica è passata in secondo piano. L’ecosistema sociale non è una priorità: è molto più importante proteggere l’ego-sistema populista, un delicato habitat in cui prosperano individui con una forte avversione nei confronti dei numeri e incapaci di attenersi ai dati ufficiali, dati che sono disponibili (ironia della sorte) sulla stessa internet che tanto adorano.

  

Mentre noi continuiamo a bere la bufala della “democrazia della rete”, in altre parti del mondo il populismo ha già compiuto il suo corso e sta mostrando i suoi true colors come una Cindy Lauper in tenuta da mistress. Penso allo spaventoso pastrocchio nazionalsocialista instaurato dal presidente Rodrigo Duterte che, con la scusa di sgominare il narcotraffico, ha trasformato le Filippine in una prigione a cielo aperto. Dopo essersi imposto per oltre vent’anni come severissimo (e inamovibile) sindaco della grande città di Davao, Duterte è diventato il politico più anziano a conquistare il governo del paese.

  

Nel 2016, a settantuno anni, quest’uomo brutale ha sbaragliato gli avversari grazie a una fanbase squadrista molto attiva sui social. Nelle Filippine più del 90 per cento degli abitanti ha un account Facebook, e i sostenitori di Duterte – nonostante il loro candidato non avesse una presenza online molto efficace – sono stati una cassa di risonanza incredibile per i suoi messaggi reazionari. I suoi post sono stati condivisi e spammati ovunque, mentre i profili dei suoi avversari venivano regolarmente presi di mira dal suo ferocissimo esercito di troll.

   

La democrazia della rete ha spinto un paese con un’età media di appena ventitré anni a eleggere un dittatore ultrasettantenne. Immaginate cosa potrebbe succedere da noi, una delle nazioni più vecchie del mondo: faremmo resuscitare Pinochet e lo porteremmo a Palazzo Chigi a colpi di like.

  

Oppure prendiamo la piattaforma populiberista del presidente indiano Narendra Modi, che con i suoi proclami da salvatore dell’induismo radicale (minacciato secondo lui dall’avanzare dell’islam e dalla cultura occidentale) sta facendo salire vertiginosamente il pil, colpendo senza pietà le fasce più deboli della popolazione, che già prima del suo arrivo versavano in atroci condizioni di povertà.

  

Quanto resistereste, cari populisti italiani, in un paese in cui si finisce in galera per una sigaretta? A Manila un tiro di Marlboro per strada (o in un locale) vi costerebbe cento euro di multa e quattro mesi di reclusione. E voi, docili elettori di sinistra che continuate a dire che da noi il populismo non esiste, sareste pronti ad accettare un regime che usa l’ortodossia religiosa per eliminare i suoi legittimi oppositori? Nonostante Modi non sia un uomo particolarmente spirituale, sa bene che emarginare la popolazione musulmana (189 milioni su oltre un miliardo e 300 milioni di abitanti) è un ottimo modo per distrarre gli induisti dalla povertà a cui le sue politiche economiche li sta condannando.

  

Quello del populismo è un mostro al quale una parte della sinistra italiana ha scelto di stringersi in un abbraccio suicida. Ci sforziamo di comprenderlo anziché rigettarlo e condannarlo per quello che è. E questo nostro inutile sforzo di comprensione non fa altro che snaturarci, indebolirci.

  

Il populismo non è uno scherzo, ma una malattia degenerativa delle democrazie. Dire che la bestia che ti sta divorando non esiste (o che non è poi così brutta come la si dipinge), non la indebolisce né la scoraggia. Se un grizzly ti azzanna, non ti salverai di certo ripetendo che capisci i motivi del suo malcontento.

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