Gustave Moreau, The Apparition (1876)

Le vette dell'erotismo predatorio a me irraggiungibili, colpa della Berlinguer

Costantino della Gherardesca

Il vero glamour è sempre contro natura, inseguo Richard Hawkins in questo mondo sanitizzato

Non c’è niente di più sublime che essere odiato dal popolo. Lo ha ben capito Richard Hawkins, artista il cui immaginario, sia quello pubblico sia quello privato, è talmente dissonante con la nostra società sanitizzata che Instagram ha deciso di censurare il suo account, sul quale si sono avvicendati collage pornografici di gif animate, iridescenti eiaculazioni digitali, ma soprattutto una fotografia dell’artista davanti allo specchio del suo bagno con farmaci di ogni tipo tra i quali degli antiretrovirali per la cura dell’Hiv. All’immagine era sovrapposta una grande scritta roteante: “The Struggle is Real”. E’ una vera battaglia: la vita, l’arte.

 

Una battaglia che spesso finisce per offendere gli animi sensibili, veri arbitri di ciò che è lecito e accettabile nella contemporaneità, così intolleranti davanti a qualsiasi cosa intacchi la purezza e la supposta naturalità dei corpi, della morale e dell’ambiente che li circonda.

 

Come può un artista come Hawkins, la cui opera è innervata di riferimenti alle pagine più cupe e pulsanti dell’iconografia religiosa, essere apprezzato in una cultura in cui la chirurgia plastica, i sonniferi e gli alberghi costruiti dopo aver sradicato un paio di ulivi sono considerati il male assoluto? Un esteta come Hawkins, i cui quadri sono pieni di rimandi alla storia di Giovanni Battista e Salomè, non può che essere odiato dal nostro tempo. La sua è una scelta di campo consapevole. Non è un caso che, nel corso degli anni, la sua rappresentazione della danzatrice e del profeta decapitato abbia visto invertirsi i ruoli di vittima e predatore, di martire e carnefice. Tradizione vuole che il pubblico veda in Salomè la languida portatrice di morte, costretta dalla situazione a rendersi complice di un delitto efferato. E’ lei il personaggio da odiare. E’ lei, infatti, al centro dell’omonimo dramma di Oscar Wilde, atto unico che nel 1923 Charles Bryant portò sul grande schermo con la folgorante Alla Nazimova, in quello che – leggenda vuole – sia stato uno dei primi film col cast interamente composto da attori omo o bisessuali.

 

Chi è la vittima, invece, nelle opere di Hawkins? In Disembodied Zombie, una celebre serie di quadri del 1997 raffiguranti teste decapitate di bellissimi ragazzi, le vittime erano attori, sex symbol, marchettari. Come dei novelli Giovanni Battista, questi volti degli anni Novanta diventano vittime del nostro voyeurismo, in ritratti di teste mozzate che ricordano l’acquerello L’Apparition (1875) di Gustave Moreau, nel quale il capo del Battista appare a Salomè, un’immagine così evocativa che, a pochi anni dalla sua realizzazione, fu discussa ampiamente nell’opera di Joris-Karl Huysmans, À rebours, da noi noto come Controcorrente, ma reso meglio dai più spiritosi inglesi che, a ragion veduta, lo intitolarono Against Nature, ossia contronatura.

 

Richard Hawkins ama lo squallore. Ma ama ancor di più il fatto che noi ne siamo contemporaneamente attratti e respinti. Per questo, negli ultimi anni, la sua rappresentazione di Salomè e Giovanni Battista è radicalmente cambiata. I suoi dipinti più belli, quelli nei quali – seguendo le orme di Baudelaire – la bellezza è follia, ritraggono giovani maschi prestanti intorno ai quali aleggiano teste mozzate e deturpate di anziani depravati. Questi vecchi predatori, turisti sessuali, archetipi pedofili, sono in alcuni casi rappresentati per intero, con tinte accese che li fanno spiccare su sfondi cupi, caratteristica che li assimila all’immaginario horror tanto amato dall’artista. 

 

La vittima (e quindi il centro della nostra attenzione) non è più il bello, che qui è rappresentato con pochi colpi di pennello, ma il mostro, il dèmone, il cui sacrificio e la cui turpitudine attira e richiama il nostro sguardo.

 

Nella folle bellezza di Hawkins il confine tra vittima e carnefice è labile e noi spettatori siamo costretti a chiederci: chi è la preda e chi è il carnefice? In chi mi riconosco in questa dinamica di potere? Nella giovane marchetta o nell’orrendo predatore?

 

In questo gioco, io finisco per essere il frocio che Hawkins prende per il culo: cioè quello che si sente troppo raffinato per cadere vittima della giovane marchetta, quello che non è disposto ad ammettere e abbracciare la volgarità del proprio desiderio sessuale, e preferisce cancellarlo e seppellirlo sotto migliaia di strati di ipocrisia. Così, mentre io rinuncio alla mia vera natura di predatore, mi ritrovo per le mani un desiderio mortificato e spento, iperaccessoriato con fiocchetti che tentano invano di nobilitarlo.

 

Quando parla dei suoi collage, che spesso includono soggetti omoerotici come scatti di un giovane Matt Dillon, Hawkins spesso si paragona al dottor Frankenstein: un uomo difficile, irascibile ma che, quando parla di mostri e di pervertiti, si placa e sorride felice. Per quanto le sue ispirazioni artistiche siano tra le più sofisticate e raffinate, tra cui il pittore postimpressionista Pierre Bonnard, Hawkins è consapevole che l’oggetto del desiderio non può che essere estremamente volgare. E come dargli torto: Belén Rodriguez attira molte più fantasie di quante non ne abbia stimolate la ballerina del Bolshoi Maya Plisetskaya. Lo stesso vale per gli omosessuali che si ritengono sofisticati, rei di aver desiderato Marky Mark (nome d’arte del giovane Mark Wahlberg, anche lui spesso nell’immaginario di Hawkins) invece di Jeremy Irons. E questa nostra folle, mostruosa e ripugnante attrazione per la volgarità di cui tanto ci vergogniamo e dalla quale facciamo di tutto per allontanarci, una volta rappresentata, diventa spaventosamente bella.

 

Ma nella vita di ogni giorno, restiamo quello che siamo: persone non liberate. Continuiamo a far finta di preferire la ballerina russa a Belén, perché appena sfioriamo la sfera del nostro desiderio sessuale, sentiamo il dovere civico di non dire la verità. Io stesso non sono liberato come Hawkins, perché ho paura dei dèmoni che lui ritrae e non voglio ammettere l’inevitabile volgarità del mio desiderio. E proprio per questo, nella dinamica di potere tra il carnefice e la vittima, tra il martire e il predatore, io finisco per non essere né uno né l’altro. Mi accontento del mio ruolo di voyeur, testimone di una transazione fisica che non mi include.

 

Il vero glamour, non dimentichiamolo, è sempre contro natura: ferisce gli animi sensibili, nemici giurati del lusso. Ma forse io stesso non ho abbastanza coraggio per essere glamorous. Forse da qualche parte nel mio inconscio c’è ancora un retaggio cripto-cristiano che mi trattiene dal raggiungere la vetta dell’eleganza, quella che Hawkins divide con i suoi predatori sessuali.

 

Sono sceso a compromessi con una società che rigetta il glamour perché teme la volgarità e, nel disumano sforzo di evitarla, si è sanitizzata.

 

Oggi che sono un begardo ultraquarantenne, mi resta una sola speranza: il tempo. Spero con tutto il mio cuore ingabbiato che la vecchiaia mi liberi di ogni pudore e mi permetta di accettare con serenità la mia inalienabile volgarità. Chissà se un giorno riuscirò a esorcizzare la Bianca Berlinguer che è in me. Quel giorno, finalmente, sarò l’orrendo puttaniere che ho sempre sognato di essere.

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