Emmanuel Macron (foto LaPresse)

La meraviglia chic dello sfarzoso corteo di auto blu di Macron ad Algeri

Costantino della Gherardesca

Manuale di resistenza glamour. Appunti per i politici italiani

Uno dei ricordi più chic della mia misera vita risale al ponte di Sant’Ambrogio del 2017. Se chiudo gli occhi, riesco a rivederlo come in un film. C’eravamo io, Emmanuel Macron e un’ambulanza.

 

Erano i giorni della grande frenesia prenatalizia e, mentre la gente ingolfava il centro di Milano per accaparrarsi gli ultimi panettoni gluten free e fare incetta di intere cucciolate di orrendi cagnolini Swarovski da regalare alle zie residenti nell’hinterland, io abbandonavo la mia adorata Zona 1 e, preso da un impeto anticolonialista à la Jacques Vergès, fuggivo alla volta di Algeri.

 

“Finalmente!”, pensavo, “Potrò sfoggiare questa borsetta nel contesto che più le si addice”.

 

Si trattava, infatti, di una pochette bianca in pelle di saffiano, che una decina di anni prima – vittima di un raptus degno del Vizietto – mi ero fatto fare su misura da Prada. “Sarà fondamentale per andare in Costa Azzurra!” mi ero detto all’epoca. Ovviamente in Costa Azzurra non ci sono mai più andato e quella borsetta è rimasta a languire nel mio guardaroba, rinchiusa per un decennio in quel sarcofago buio, mentre là fuori succedeva di tutto: cadeva il secondo governo Prodi, Berlusconi risaliva al potere per la quarta volta, e poi arrivava Monti a ricordarci che la festa era finita da più o meno una quarantina d’anni, e che l’intera nazione doveva aggiornare il profilo LinkedIn e imparare a usare cose profondamente unsexy come Excel. Il mondo cambiava pelle, mentre la mia borsetta – un faro di onestà intellettuale – restava coerente a se stessa.

 

Così coerente che, mentre il mio aereo atterrava sulla pista dell’Houari Boumédiène di Algeri, la mia pochette veniva scossa da un fremito rivoluzionario. Che cosa stava succedendo? Semplice, era consapevole di trovarsi a pochi chilometri dal luogo in cui – oltre sessant’anni prima – una sua ben più celebre antenata era entrata nella storia. Nel settembre del 1956, infatti, la rivoluzionaria Zohra Drif entrò nel Milk Bar, un locale di Algeri molto frequentato dai coloni francesi, e vi lasciò una borsetta bianca. Contrariamente alla mia, quella della Drif non era di Prada, ma in compenso era farcita di esplosivo: questo è uno dei rarissimi casi in cui anche io sono pronto ad ammettere che l’apparenza non conta ed è il contenuto a far la differenza.

 

Sul taxi verso l’albergo, ripensavo alla mia missione: andare al Milk Bar e far rivivere alla mia borsetta il brivido antimperialista di quell’attentato (ricostruito da Gillo Pontecorvo nei minuti inziali della Battaglia di Algeri). Guardando pigramente dal finestrino, però, mi sono accorto che la capitale era presidiata da una quantità raggelante di polizia. Arrivato in hotel, ho notato che tutti erano in uno stato di ansia palesemente eccessiva. Gli ascensori erano presidiati, una guardia ciascuno.

 

“Che cosa succede?”, ho chiesto al concierge.

 

“Macron è nostro ospite” mi ha risposto sottovoce. “E’ la sua prima visita ufficiale in Algeria da quando è presidente.”

 

Il bar e il ristorante dell’albergo erano chiusi in attesa di Macron e il suo staff, quindi i miei amici e io siamo usciti per andare a bere qualcosa al Saint George. Ma niente da fare: la nostra auto è stata immediatamente bloccata per far passare quella del presidente, che stava rientrando con al seguito un’imponente processione di veicoli. Motociclette, volanti della polizia, camionette blindate, berline e in coda a tutti – ciliegina sulla torta – un’ambulanza, pronta per ogni evenienza. Una rarissima combo di glamour e assistenza sanitaria: il sogno della mia vita. Ho fissato in silenzio i lampeggianti blu che si allontanavano nella notte. Davanti a quella visione così chic, uno degli spettacoli più sfarzosi che mi sia mai parato davanti agli occhi, il mio cuore si è stretto in una morsa d’invidia.

 

“Niente ambulanza per me”, ho sospirato, “mi troveranno stecchito, riverso sul pavimento del cesso, con al collo un salvavita Beghelli a cui ho scordato di cambiare le pile”.

 

E del resto Macron quel trattamento speciale se lo meritava. Nei pochi giorni della sua visita, mentre io mi consolavo facendo la rievocazione storica dell’attentato al Milk Bar come il più postmoderno dei turisti, lui chiudeva accordi commerciali con l’Algeria per non so quanti miliardi di euro. Pur tenendosi alla larga dal Club des Pins, che per le alte gerarchie dell’esercito (vere eminenze della politica algerina) è una cosa a metà strada tra un country club per businessmen e un compound per vacanze brutaliste, Macron ha fatto quello che un uomo di potere deve saper fare: sporcarsi le mani negli interessi del proprio paese con la stessa disinvoltura con cui un’asburgo si lancia in un walzer.

 

E che importa se in molti hanno detto che gli algerini che lo hanno accolto tra applausi e abbracci non erano altro che figuranti? Un affetto ben pagato vale molto di più di un sentimento gratuito.

 

E che importa se in tanti, incluso il Washington Post, hanno accusato Macron di aver speso 26.000 euro in prodotti di bellezza solo nei primi tre mesi del suo mandato? Un presidente idratato ed esfoliato è un presidente che ha deciso di durare. Anche perché una democrazia matura non può reggersi su una banale barretta di sapone. Una democrazia matura deve saper celare le sue peggiori intenzioni sotto uno spesso strato di cipria.

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