Chimamanda Ngozi Adichie (foto Ap, via LaPresse)
La rabbia e la speranza di una scrittrice. Intervista a Chimamanda Ngozi Adichie
Vive tra la sua Nigeria e gli Stati Uniti. Per lei realizzare che la diversità è normale è “l’unica forma necessaria di umiltà”. La letteratura come forma sublime di libertà. Una conversazione con la scrittrice nigeriana
L’intervista che state per leggere è nata dopo un lungo scambio di e-mail che Chimamanda Ngozi Adichie ha concluso sempre con le parole ka udo di, ka ndu di, una formula di auguri del suo idioma Igbo, traducibile in italiano con “che la pace sia sempre con te”. Quando sono riuscito comprenderne il significato grazie a ChatgGPT mi sono chiesto come avrebbe commentato il fatto che mi sia avvalso dell’intelligenza artificiale, e soprattutto quale sia il tipo di pace che auspica. Non che la consideri lontana da un auspicio di questo tipo, ma la prima impressione che comunica ogni volta che la incontri è quella di una personalità che rifugge ogni tipo di artificialità ed è pronta a combattere con forza per affermare un principio nel quale crede. “Dovremmo essere tutti femministi”, mi ha spiegato una volta, citando un suo saggio celebre e controverso, poi mi ha invitato a vedere una sua Ted Conference che ha avuto sei milioni di contatti e ha ispirato la canzone Flawless di Beyoncè: “Insegniamo alle ragazze a rimpicciolirsi”, spiegava in quella conferenza, “a fare di loro stesse una versione minima di quello che potrebbero essere. Diciamo alle ragazze: ‘Puoi avere ambizione, ma non troppa. Puoi avere successo, ma non troppo, altrimenti minacci l’uomo’. Perché ci si aspetta che io, come donna, aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che ogni mia scelta sia fatta tenendo a mente che il matrimonio sia la cosa più importante. Io ritengo che il matrimonio sia fonte di gioia, amore e supporto reciproco, ma perché insegniamo alle ragazze ad aspirarvi e non facciamo lo stesso con i ragazzi? Noi educhiamo le ragazze affinché non competano per ottenere dei lavori o altri tipi di risultati – cosa che a mio avviso sarebbe giusta – ma per l’attenzione degli uomini. E insegniamo alle donne che non possono avere nei confronti del sesso l’atteggiamento che hanno gli uomini”. Quando venne alle Conversazioni a Capri riprese quei temi con una determinazione tutt’altro che pacifica, e che evidenziava l’urgenza di quello che stava affermando: “Io sono arrabbiata. Il genere, come è concepito oggi, è una grave ingiustizia. Dovremmo essere tutti arrabbiati: la rabbia ha una lunga storia che testimonia come generi cambiamenti positivi, ma io, insieme a essa, provo anche speranza. E sono speranzosa perché credo profondamente nell’abilità degli esseri umani di costruire e riformare sé stessi migliorandosi”.
E’ una donna colta, Chimamanda, che predilige sempre l’approfondimento sulla semplificazione e ha uno sguardo aperto al mondo: quando le ho chiesto di scegliere uno scrittore prediletto per i reading di Writers on Writers mi ha sorpreso optando per Ivan Turgenev, e celebrando le proprie affinità con un autore così distante dalla sua tradizione. In quei giorni capresi discusse con E.L. Doctorow sul tema del genere, fondamentale nella sua esperienza artistica ed esistenziale quanto quello razziale. Lo scrittore americano seguiva incantato il modo di ragionare, che mescolava esempi concreti, spesso dolorosi, con riflessioni filosofiche: ha il carisma del leader rivoluzionario, Chimamanda, e la lucidità di chi conosce le trappole e il potere del linguaggio. “Insegnale a mettere in discussione il linguaggio” ha teorizzato, ricreando un dialogo con una giovane donna di colore, “è il deposito dei nostri pregiudizi per le nostre convinzioni, delle nostre supposizioni”. Ha un sorriso maestoso, antico, e lo mostra tutto quando afferma senza alcuna remora: “Non sono affatto preoccupata di intimidire gli uomini. Il tipo di uomo che è intimidito da me è esattamente il tipo di uomo per cui non ho alcun interesse”. E ha la battuta pronta, veloce e pungente: quando uno studente, al termine di una conferenza universitaria, ha dichiarato che provava vergogna per il fatto che gli uomini nigeriani commettessero abusi sessuali come il personaggio di un padre raffigurato in un suo romanzo, ha replicato: “Recentemente ho letto un romanzo intitolato American Psycho, e provo vergogna per il fatto che i giovani americani siano serial killer”.
E’ la quinta di sei figli di James, docente di Statistica, e Grace, la prima donna che abbia rivestito il ruolo di manager universitaria nel proprio paese d’origine. La famiglia andò in rovina durante la guerra civile nigeriana, nella quale morirono sia i nonni paterni che materni. Ha studiato medicina in Nigeria prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove lo shock culturale vissuto all’arrivo nel nuovo mondo divenne il punto focale di Americanah, che l’ha trasformata in una stella della letteratura dopo L’ibisco viola e Metà di un sole giallo. E’ evidente in ogni sua affermazione quanto si senta orgogliosamente ancorata alle proprie radici: “Quando studiavo in America, la mia compagna di stanza era stupita che parlassi l’inglese e non ascoltassi musica tribale: per lei esisteva soltanto una storia dell’Africa, una storia di catastrofi. In questa unica storia non c’era possibilità che gli africani fossero simili a lei, non esistevano sentimenti più complessi della pietà e non c’era possibilità di un rapporto paritario”. Ha una posizione netta anche sull’idea di diversità, che definisce “la realtà del mondo, ed è questa l’unica forma necessaria di umiltà: realizzare che la diversità è normale”. E’ in egual misura evidente come il piacere che ha dichiarato più volte nei confronti della scrittura rivesta per lei anche un elemento etico e politico: “Le storie sono importanti proprio per la propria moltitudine. Sono state utilizzate per fare del male, per spogliare e privare, ma possono essere usate anche per dare forza e umanizzare. Possono spezzare la dignità di un popolo ma possono anche riparare quella dignità spezzata”.
Si tratta di un concetto che le sta molto a cuore, e non mi stupisce che non esiti un attimo quando le chiedo come sia diventata una scrittrice.
“Scrivo da quando ho iniziato a parlare. Ritengo che la scrittura sia una mia vocazione, un dono ancestrale. Se non avessi avuto la fortuna di essere letta e pubblicata, avrei scritto comunque, sconosciuta e non pubblicata. Per me è inconcepibile non scrivere”.
All’inizio della sua carriera lei ha scritto poesie e testi per il teatro, poi ha individuato la sua voce nel mondo della finzione. Cos’è che l’attira in particolare nella narrativa, e perché ha deciso di diventare una romanziera?
“La narrativa è sempre stata la passione della mia intera esistenza, e il mio ultimo testo per il teatro l’ho scritto quando avevo diciott’anni. La narrativa è differente da qualunque altra forma d’arte a causa della complessità che ne caratterizza sia la creazione che la fruizione. Ho sempre trovato ciò magico e spirituale – ti trovi a rivestire un ruolo simile a quello di Dio nel creare storie e personaggi. Poi, quando leggi alcuni personaggi senti di diventare vivo all’interno di un corpo che non è il tuo. La tua immaginazione è messa alla prova più che con qualunque altra cosa: la narrativa è la forma più sublime di libertà”.
Ho chiesto agli altri scrittori intervistati se ritengono che il linguaggio delle parole sia stato influenzato o in qualche modo ucciso da quello delle immagini. Qual è la sua posizione?
“Io ritengo che sia stato influenzato, ma non ucciso. L’ubiquità dell’immagine ci ha portato a ritenere che il valore delle immagini sia superiore a quello della parola. Ma per quanto sia utile è per molti versi più pigro, quindi più facile. Personalmente apprezzo davvero poco coloro che si dicono eccitati riguardo a un libro trasformato in un film più di quanto lo siano per il libro stesso”.
Esiste secondo lei qualcosa che il cinema può fare e la letteratura invece non riesce?
“Appartengo a coloro che pensano che la letteratura abbia in generale una variabile di possibilità molto superiore a quelle del cinema. Ad esempio, la capacità di creare l’interiorità in un modo che nessun’altra espressione artistica può riuscire a fare con analoga efficacia: la letteratura ci offre l’accesso al mondo intimo del soggetto che viene descritto”.
Quando scrive segue una routine precisa?
“No, scrivo quando ne ho la possibilità e ho bisogno di pace e silenzio. Una casa vuota e assolutamente nessun tipo di musica”.
Esiste un libro fondamentale per la sua formazione?
“Recentemente mi è capitato di rileggere Middlemarch di George Eliot e mi sono resa conto di quanto sia stato importante per me”.
Ritiene ancora che “viaggiamo per ricercare, poi torniamo a casa per trovare noi stessi lì”?
“Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma direi di sì”.
Pensa di aver preso qualcosa della sua identità, vivendo in America?
“No, non credo. Passo metà dell’anno in Nigeria, e quando sono lì sono totalmente immersa nel mio paese e succede lo stesso quando sono in America: ritengo sia un privilegio poter vivere l’esperienza di entrambi i mondi”.
Esiste qualcosa per cui si sente grata nei confronti dell’America?
“Ero già una scrittrice prima che mi trasferissi negli Stati Uniti, ma sarò sempre grata nei confronti dell’America perché soltanto qui ho avuto il privilegio di essere pubblicata nella maniera in cui sognavo. La mia carriera sarebbe stata molto differente se non fossi venuta negli Stati Uniti”.
Come ha visto cambiare l’America dall’inizio della seconda amministrazione Trump?
“Quello che mi colpisce maggiormente è come sia comune la crudeltà”.
In Americanah ha scritto: “Il razzismo non dovrebbe esistere, quindi tu non meriti alcun premio per averlo ridotto”. Come ha visto cambiare il razzismo con questa amministrazione?
“Penso che il razzismo sia sempre esistito in America, ma questa amministrazione ha rimosso ogni copertura esistente e le eventuali responsabilità di chi si macchia di atteggiamenti razzisti. In questo periodo è diventato netto, spietato, rilevante e persino più orribile. Sono scioccata all’idea che un agente del governo americano possa guardare brevemente una persona e, basandosi esclusivamente sul colore della pelle, decidere che si tratti di un immigrato clandestino e in quanto tale possa perseguitarlo o anche aggredirlo. I notiziari di ogni giorno raccontano molti esempi di questo tipo, e l’idea che una persona di colore o un ispanico sia un sospetto in America per il solo fatto di avere quel colore di pelle rappresenta la forma più grave e volgare di razzismo”.
Sempre in Americanah ha scritto: “Caro nero non americano, nel momento in cui fai la scelta di vivere in America diventi nero. Smetti di discutere. Smetti di dire sono giamaicano o del Ghana. All’americano non importa”. E’ ancora così?
“No. Nel caso specifico, si tratta di un blog postato da un personaggio il cui fine era proprio quello di provocare. La realtà è molto più variegata, e l’America è un paese in cui la razza rappresenta un’identità primaria, mentre molti neri non americani provengono da paesi di maggioranza nera e quindi non la ritengono tale. Tutto ciò in America crea una situazione complessa alla quale per alcuni può diventare difficile adattarsi”.
In Metà di un sole giallo ha scritto: “La vera tragedia del nostro mondo post coloniale non è che la maggioranza della gente non ha avuto modo di dire se voleva o non voleva questo nuovo mondo; piuttosto è che alla maggioranza non è stato dato lo strumento di negoziare questo nuovo mondo”.
“Penso sia ancora così e che sia stata una tragedia”.
In Dovremmo essere tutti femministi ha scritto: “Io sono arrabbiata. Dovremmo essere tutti arrabbiati. La rabbia ha una lunga storia di portare con sé dei cambiamenti positivi”. Ritiene che la rabbia sia l’unico modo per ottenere degli autentici cambiamenti?
“Ovviamente no. La rabbia è una delle strade, ma non l’unica strada. Allarghiamo però il discorso: quello che cercavo di affermare è che non dovremmo mai liquidare una donna dicendo ‘sei piena di rabbia’. Quando una donna esprime rabbia viene messa a tacere per la rabbia che manifesta, mentre viene ignorato il motivo da cui essa nasce”.
Nel suo Ted Talk del 2009, intitolato Il pericolo di una storia singola, lei ha espresso la preoccupazione che accettando “un’unica versione di una storia si perpetuano gli stereotipi senza riconoscere la complessità della vita umana”. Personalmente sono d’accordo ma voglio chiederle se ritiene che esista qualcosa che sia completamente univoco, come il male assoluto. Mi viene in mente il passaggio del Vangelo in cui è scritto “gli uomini preferirono le tenebre”.
“No, non sono d’accordo. Il mio punto di vista sull’esperienza umana è che non siamo malvagi, ma deboli: siamo fragili e le nostre azioni nascono dalla nostra fragilità più che dal male”.
Non posso non chiederle qual è la sua posizione riguardo alla fede e alla religione.
“Più invecchio e più capisco perché gli esseri umani abbiano inventato la religione: la maggioranza di noi ne ha bisogno. L’esperienza umana è così impenetrabile e sconosciuta, e la fede rappresenta un atto di umiltà autoprotettiva, un bel riconoscimento della nostra infinita piccolezza. La fede può portare all’esistenza un senso: la vita senza significato non è altro che un fragoroso vuoto”.
Lei è stata allevata secondo i dettami della religione cattolica: quale ritiene sia l’elemento più rivoluzionario del cattolicesimo?
“Non è ancora avvenuto: sarà l’inclusione in tutto e per tutto delle donne nella chiesa”.
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