Ansa

L'intervista

Muscoli e chiave inglese per un romanzo. Parla Chuck Palahniuk

Antonio Monda

“Ogni libro è una macchina e un esperimento”, dice l'autore americano, che ha scritto “Fight Club” dopo essere stato massacrato di botte in una rissa. Il talento, le ferite della vita, un comandamento: non diventare mai noioso

Quando Chuck Palahniuk partecipò alle Conversazioni, a Capri, eravamo tutti preoccupati: la fama che lo precedeva era sulfurea, e circolavano leggende sui suoi improvvisi cambiamenti d’umore. Inoltre lo scrittore aveva perso la coincidenza per Roma ed era rimasto bloccato nello scalo di New York dopo una partenza all’alba da Portland, e la traversata in traghetto da Napoli era stata infestata dal mare agitato. Al suo arrivo rimasi impressionato dal fisico scolpito, quasi da culturista, ma le ansie svanirono quando mi trovai di fronte un uomo sorridente e gentile, persino formale, che ammirava incantato la meraviglia dell’isola. Storpiai subito il suo cognome e lui spiegò di essere di origine ucraina e che la pronuncia era il risultato della fusione di due nomi: Pola e Nick, con l’accento sulla a. Poi mi raccontò che aveva iniziato a scrivere per caso: lavorava come meccanico, e quando tornava a casa, dove tuttora non ha un televisore, leggeva unicamente romanzi pulp. Non c’era nulla che lo soddisfacesse, e così scrisse Fight Club dopo essere stato massacrato di botte in una rissa. “Mi ridussero il volto una polpa”, mi spiegò come fosse una cosa normale, “e mi venne l’idea del romanzo mentre provavo quel dolore impossibile”. Dolori e assurdità lo hanno inseguito sin da bambino: appena compiuti i diciotto anni, il padre gli ha spiegato che la nonna che adorava non era morta di difterite, ma era stata uccisa dal nonno in uno scatto d’ira. Qualche anno più tardi il padre Fred rispose a un annuncio di un appuntamento al buio e divenne amante di una donna che si presentava come Kismet. Al terzo incontro decisero di rimanere a letto tutto il giorno, ma improvvisamente tornò a casa il fidanzato della donna, uccise entrambi, li fece a pezzi e ne bruciò i resti. Oggi Chuck racconta questi episodi con un distacco raggelante, ma durante il processo si augurò pubblicamente che l’assassino venisse condannato a morte. Poi non riuscì a provare alcun sollievo quando l’uomo venne giustiziato. Non si definisce religioso, ma crede che esistano la necessità di una struttura che spieghi l’esistenza e una mappa per la salvezza: “Mia nonna negli ultimi anni andava sempre in chiesa, e a me sembrava che fosse l’età, ma ora che cresco penso che risponda a qualcosa di più profondo e imprescindibile”. 

 

 


Questa sequela di mostruosità lo ha portato a recitare in pubblico un ruolo dove non capisci più cosa ci sia di vero e cosa di esagerato o inventato: con gli anni è diventato un personaggio, e lui è il primo a sapere quanta poca differenza ci sia tra la realtà e la finzione. A Capri raccontò di collezionare foto di persone morte mentre assistevano a spettacoli pornografici, e chiuse l’incontro citando Fight Club: “Non voglio morire senza cicatrici”. Sorrise al pubblico in estasi e disse: “E’ così difficile dimenticare il dolore, ma è ancora più difficile ricordare la dolcezza. Non abbiamo cicatrici da mostrare per la felicità”. Anche nei regali non ho capito quanto ci sia dell’uomo e quanto del personaggio, ammesso che ci sia una differenza: il mio partner Davide Azzolini si vide arrivare in dono, nel giorno del matrimonio, una bambola gonfiabile e cerotti sui quali erano stampate delle bistecche. C’è sempre un elemento provocatorio in quello che fa e dice, ma sa sostanziare ogni presa di posizione con argomentazioni intelligenti e spiritose, ripetendo un concetto espresso in Invisible Monsters: “Dio ci guarda sempre e ci uccide quando diventiamo noiosi. Non dobbiamo mai, mai diventarlo”. E’ una persona profondamente curiosa, ma sempre sorprendente: “Non fare quello che vuoi, e fai quello che non vuoi. Fai quello che sei stato educato a non fare, fai le cose che ti spaventano di più”. Era inevitabile che asserzioni di questo tipo lo trasformassero in un autore di culto per le generazioni più giovani: frasi come “Quando non sappiamo chi odiare odiamo noi stessi” o “E’ una di quelle giornate in cui il sole sorge solo per umiliarti” hanno conquistato immediatamente un mondo che soffre di un disagio esistenziale, ma nel suo caso il dolore arriva allo spasmo, soprattutto quando lo copre con l’ironia: “Una ragazza mi ha chiesto se morire è doloroso. Le ho detto sì, ma è molto più doloroso vivere”. Chuck non ha paura di rivelare le proprie lacune culturali: la prima volta che gli dissero che era il nuovo Vonnegut non sapeva chi fosse, ma ora ne sa parlare con competenza. Ha un talento naturale e visionario, che si è declinato in un minimalismo di grande efficacia, dovuto molto alla lezione di Tom Spandauer: oggi parla con acume di Camus, al quale dice di ispirarsi. Tra i suoi lati nascosti ce ne sono molti luminosi, persino commoventi: ha lavorato per molti anni come volontario in un centro per malati terminali, fin quando uno di loro gli è morto tra le braccia e lui ha smesso per il trauma. E’ apertamente gay, ma ha cominciato a parlarne pubblicamente solo perché temeva che il compagno lo rivelasse prima di lui.

 

 

Negli ultimi tempi ha accentuato l’attività narrativa cimentandosi anche nella graphic novel, nell’ideazione di videogiochi e negli adattamenti cinematografici, sostenendo che la finzione è più potente della realtà e, soprattutto, più duratura. Non c’è intervista in cui non dica di non essere un nichilista ma “un romantico” e che nulla che lo riguardi è originale: “Sono il risultato di tutte le persone che ho conosciuto”. Non rinuncia mai allo spettacolo, però: quando era in tour promozionale per Diary leggeva sempre il racconto Budella, chiedendo agli spettatori di trattenere il respiro più a lungo possibile. Nell’arco della tournée svennero più di quaranta persone, e lui, dopo una prima reazione di divertimento, ne rimase molto turbato. “Siamo fragili,” mi dice quando iniziamo questa conversazione, “molto più di quello che pensiamo: mi chiedo se questa fragilità sia la nostra bellezza, e perché, sapendolo, continuiamo a farci del male”. Come è diventato uno scrittore? Il deserto nella zona orientale dello stato di Washington si estende nella sua desolazione in ogni direzione, a eccezione di qualche cactus, una grande prigione maschile e il gigantesco impianto nucleare dove è stata costruita la prima bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale. Sono nato e cresciuto lì, e non avevo visto l’oceano fin quando un programma governativo offrì ai più promettenti giovani scrittori l’opportunità di partecipare a una conferenza in una località marina. Il governo stabilì che ogni giovane scrittore avrebbe dovuto vivere per due settimane insieme agli altri, dividendo la stessa scuola sulla spiaggia. Per essere ammessi bisognava sottoporre una selezione di poesie e racconti. Nel 1972, a dieci anni, immaginai che la conferenza si tenesse in un castello, dove sarei diventato amico con bambini dalla mentalità artistica. Con in mente l’obiettivo di vedere l’oceano ho iniziato a scrivere poesie e proporre il mio lavoro. Sono stato bocciato per cinque anni consecutivi e quando ho raggiunto 15 anni, scrivevo ormai strofe epiche, eroiche, del tipo: il sangue caldo, taglia neve setacciata / in cerchi inseguiti dai cani, sciolti e vasti / I cacciatori in ascolto annuiscono e sanno / la loro preda non ha il tempo di nascondersi. Roba abbastanza ingegnosa per un quindicenne di campagna. Dopo sei anni di bocciature fui finalmente scelto, ma purtroppo, mentre sfornavo poesie, non mi ero accorto che il luogo della conferenza era stato cambiato, e invece di visitare un castello sul mare, sono stato spedito in un monastero abbandonato… nel deserto. Insieme a un centinaio di aspiranti giovani scrittori venimmo trasportati in bus in un palazzo vuoto e triste, circondato da cactus e dune di sabbia. Persino i monaci trappisti se ne erano scappati. Il più grande sogno della mia infanzia, l’obiettivo per cui avevo lavorato per cinque anni, mi aveva fatto arrivare in un posto dove non c’era il mare, non c’erano i gabbiani e non c’era nulla da fare salvo studiare la poesia. Ora facciamo un salto di 37 anni fino al 1999, anno in cui mio padre è stato assassinato. Quando le indagini sono concluse, la polizia mi consegna il suo portafoglio. Tra le carte di credito e la sua patente trovo infilato un pezzo di carta spiegazzato: una poesia. Per quasi quarant’anni, fino al giorno in cui è stato ucciso, mio padre portava con sé una delle poesie con cui avevo vinto quel concorso. Sebbene oggi viva vicino ad alcune delle più belle spiagge del mondo, non vado mai a vedere l’oceano Pacifico, la passione che avevo per il castello sul mare si è trasferita completamente nel compito infinito di scrivere. E anche da bambino, mi sono reso conto che il premio non è riconoscimento, ma il processo della competizione.

 


Ricorda la poesia che conservava suo padre? Era sulla guerra in Vietnam, e l’ho scritta quando avevi undici anni: “Mentre alcuni sono silenziosi dietro le sbarre / altri aiutano a curare le ferite / causate da lotte interne ed esterne / e da tormento, guerra e dubbio”.
Lei ha fatto molti lavori manuali compreso il meccanico. Qual è la più grande lezione che ha imparato? Queste esperienze hanno influenzato in qualche modo la sua scrittura? Tra i moltissimi meccanici con i quali ho lavorato, tanti avevano studiato scrittura all’università, ed erano laureati con un diploma simile al mio. Uno di loro scriveva in segreto romanzi e tascabili commerciali per un editore che lo pagava trecento dollari a libro. Da scrittori falliti scherzavamo sul fatto che i nostri docenti di letteratura avrebbero dovuto insegnarci a lavorare come saldatori perché a quelli specializzati con l’acciaio venivano pagate due ore in più di straordinario. Lavorando in fabbrica ho visto come interi veicoli venivano assemblati velocemente perché piccoli assemblaggi – il motore, l’asse, la trasmissione, il radiatore – erano costruiti su linee secondarie rispetto all’assemblaggio principale. Ogni sistema più piccolo era completo e perfetto, e pronto nel momento in cui serviva per il veicolo. Assistendo a quel processo, mi sono reso conto che il plot di un romanzo poteva essere costruito da molti punti diversi. Se scrivo una dozzina di storie molto forti, possono fondersi per formare un romanzo migliore di quello che avrei potuto scrivere usando il metodo lineare dall’inizio alla fine. Una storia può essere il motore, un’altra le gomme, ma poi tutti questi pezzi possono finire per mescolarsi, sorprendendo anche l’autore. Secondo me ogni libro è una macchina e un esperimento. Se puoi metterla in moto e cammina è un successo. E’ vero che lei conserva le ceneri di Shirley Jackson? Una serie di passioni ha caratterizzato il mio diventare adulto. Dopo l’università, ho messo tutto me stesso nei corsi educativi di miglioramento personale della Landmark. Poi ho conosciuto un gruppo, chiamato The Cacophony Society, che ha inventato e gestito eventi surreali come Burning Man e SantaCon.  Molti amici della Cacophony Society provenivano dalla California del Nord e tra questi c’era la figlia di Shirley Jackson, che conoscevo come Sadie.  Per anni aveva venduto le ceneri della madre su Internet, le chiamava “ShirleyBone” ed era convinta che la madre avrebbe approvato: i lettori della narrativa cupa di Shirley Jackson erano messi in condizione di acquistare una reliquia bruciata della loro autrice preferita. Alla fine degli anni 90 Sadie venne condannata, credo per vendita di marijuana, e finì in carcere. Le era rimasto poco delle ceneri della madre. Attraverso amici comuni apprese che amavo le storie di Shirley Jackson e decise di mandarmi tutto quello che era rimasto. A quel punto ho comprato due scatole intagliate con grande cura, ho diviso le ceneri, ho aggiunto una lettera in cui spiegavo la provenienza e ne ho regalata uno al mio agente, una al mio editore. 

 

 


Una volta ha dichiarato: solo quando abbiamo perso tutto, siamo liberi di fare ogni cosa. Che cosa intende? La gente spesso confonde quello che dico con quello che dicono i miei personaggi di finzione. Io non sono i miei personaggi né loro sono me. Siamo nel pieno delle vacanze natalizie: può raccontarmi cos’è il Santa Rampage? Il Santa Rampage, conosciuto anche come SantArchy, ovvero SantaCon, o The Red Tide era un evento natalizio che si svolgeva ogni anno, creato dalla Cacophony Society. E’ iniziato a San Francisco nel 1994, quando centinaia di persone si vestirono da Babbo Natale e cominciarono a disturbare scherzosamente gli eventi pubblici. Non si trattava espressamente di un atto politico, solo qualcosa che facemmo per lo spettacolo di quell’immagine e per assaporare la gioia che ci mancava nella nostra vita adulta. La Cacophony Society ha avuto la funzione di laboratorio per creare delle esperienze, e quel Gruppo diventò il mio modello per la parte di Fight Club dedicate al Progetto Mayhem. Ogni evento messo in scena dalla Cacophony Society era un esperimento, e quando aveva successo la società l’adottava e lo ripeteva.  I fondatori originali del Santa Rampage non partecipano sin dagli anni 90, ma quest’anno ci saranno in azione circa 100.000 persone vestite da Babbo Natale, sebbene molti di loro non fossero neanche nati quando abbiamo inventato questa festa più di trent’anni fa. Come Fight Club l’evento è diventata una macchina in grado di sopravvivere in maniera indipendente. Le nostre creazioni ci sopravvivranno a lungo, e questa è una bella sensazione.

Di più su questi argomenti: