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LA DECOLONIZZAZIONE CHE TOGLIE GESù DALLA SUA FESTA

Il Natale è un patrimonio culturale, non un dogma da neutralizzare

Daniela Santus

Nel nome dell’inclusione si finisce per svuotare il Natale della sua storia, trasformando una tradizione stratificata e condivisibile in un rituale neutro e senza senso. Ma includere non significa cancellare: significa conoscere, spiegare e aggiungere, non fare tabula rasa

Negli ultimi anni l’espressione “decolonizzare il Natale” è entrata nel dibattito pubblico con toni spesso accesi. Da un lato c’è chi ritiene necessario ripensare tradizioni considerate “occidentali” per renderle più universali; dall’altro chi vede in questo tentativo una forzatura ideologica che svuota la festa delle sue radici storiche e culturali. Al centro, però, c’è una questione più profonda: quando si parla di inclusione, si rischia talvolta di confonderla con la cancellazione di tutto ciò che appare culturalmente connotato come cristiano o ebraico. Dunque potenzialmente divisivo.

Certo non si può negare che molti elementi iconografici e narrativi della festa siano nati in un contesto europeo cristiano: i presepi, le messe, l’immaginario invernale, Babbo Natale e le renne. Ma dov’è il danno? Anche perché, se davvero si volesse riportare la nascita di Gesù alle sue “origini” mediorientali, allora dovremmo parlare di una madre ebrea, Mirjam, che da Nazareth giunse a Betlemme dove diede alla luce un bambino destinato a crescere come ebreo osservante, a insegnare come un rabbi e a morire per mano degli occupanti romani, che temevano “il re dei Giudei”. Questa sarebbe l’unica forma di “decolonizzazione” che apporterebbe contesto ed educazione. Invece si preferisce l’assurdo. E i casi concreti che affollano le cronache di questi giorni dimostrano quanto questa deriva sia ormai sistemica. A Reggio Emilia, la scuola primaria San Giovanni Bosco ha riscritto il testo di Jingle Bells eliminando ogni riferimento a Gesù. “Aspettando quei doni che regala il buon Gesù” è diventato “Aspettano la pace e la chiedono di più”; “Oggi è nato il buon Gesù” si è trasformato in “Oggi è festa ancor di più”. A Magliano in Toscana, stessa sorte: il nome di Gesù espunto dai canti natalizi “per garantire la laicità dell’istituto”. A Carate Brianza, le maestre hanno premurosamente avvisato i genitori che i bambini avrebbero intonato “canzoni natalizie non religiose” durante una visita a una Rsa. Come se “Astro del Ciel” e “Tu scendi dalle stelle” – brani risalenti rispettivamente al XIX e al XVIII secolo – fossero diventati improvvisamente testi eversivi da mettere all’indice.

L’epicentro di questo fenomeno è forse Berlino, una città che mesi fa ha acceso illuminazioni pubbliche per il Ramadan e che adesso dibatte su come decolonizzare il Natale. Il “Forum delle religioni di Berlino” ha infatti organizzato un evento interreligioso (ma, guarda caso, non c’erano relatori ebrei) presso la Friedenskirche in cui, come ha reso noto Dorothea Schupelius del Welt, “relatori musulmani hanno spiegato quali abissi religiosi si nascondano nella corona dell’Avvento”. Il tutto finanziato dagli ignari contribuenti.

Così come le scuole italiane che espungono ogni riferimento a Gesù dai canti natalizi, anche l’evento di Berlino aveva quale scopo dichiarato quello di tutelare sensibilità diverse. Ma qui si annida il paradosso più clamoroso: Gesù è forse una figura che “esclude”? Per l’ebraismo è un maestro ebreo. Per il cristianesimo, il Logos incarnato. Nell’islam è un grande profeta, destinato a tornare prima del Giorno del Giudizio per sconfiggere l’Anticristo e ristabilire la giustizia divina. In alcune correnti induiste, Gesù viene interpretato come avatar di Vishnu. Eliminare il suo nome per garantire l’inclusività, o addirittura eliminare il Natale, sono scelte che si fondano su ignoranza teologica mascherata da progressismo: si presume di tutelare sensibilità religiose di cui evidentemente si ignora il contenuto dottrinale.

Il punto critico è che l’inclusione autentica non consiste nel rendere tutto neutro, ma nell’offrire gli strumenti per comprendere e valorizzare la diversità. Un bambino musulmano, induista o ebreo non trae beneficio dall’ascoltare un canto svuotato di significato; ne trae invece dall’imparare che quella canzone nasce da una tradizione diversa dalla sua, che può essere rispettata senza essere assunta come propria. Invece, a una tradizione millenaria si contrappone la negazione, l’opportunismo o, peggio ancora, il falso storico: come quando si parla di “Gesù palestinese” e si adagia una kefiah nella mangiatoia. O come quando Gesù proprio scompare e allora ci si chiede quale natalità si celebri a Natale, com’è accaduto alla scuola primaria Moscati di Milano. Qui, alla recita natalizia, i bambini hanno cantato una canzone palestinese, in arabo. Con ciò non intendo dire che i bimbi non debbano imparare canzoni palestinesi, penso piuttosto che presentarle a Natale sia scorretto. Seppur sia vero che il Natale non è solo un evento religioso, è per certo un evento culturale: è legato al ciclo stagionale, alla dimensione familiare, ai rituali condivisi. In molti paesi è festa civile oltre che spirituale. La storia stessa del Natale dimostra che non esiste una tradizione monolitica da difendere o da abbattere. Ma non è una tradizione araba o islamica. Dal Medioevo delle sacre rappresentazioni al Settecento dei grandi oratori, fino all’Ottocento borghese che ha inventato l’albero e i regali, ogni epoca ha aggiunto un tassello. E’ proprio questa stratificazione che rende il Natale un patrimonio culturale, non un dogma da neutralizzare. Eliminarne gli elementi storici significa ridurlo a un generico “periodo invernale di lucine e regali”. L’inclusivismo eccessivamente prudente produce l’effetto opposto: impoverisce il senso di appartenenza e priva i giovani della possibilità di confrontarsi con un patrimonio millenario.

Significativo è il caso dei genitori italiani che si sono ribellati a queste scelte. Una madre su Facebook si è chiesta: “Mi domando se sia veramente laico censurare Gesù o semplicemente discriminatorio”. La domanda coglie nel segno: il problema non è l’inclusione, ma il metodo. Un approccio più maturo partirebbe da un principio elementare: includere significa aggiungere, non sottrarre. Accanto ai canti tradizionali cristiani si potrebbero introdurre, a seconda dei momenti in cui cadono le varie feste, canti per Hanukkah, Mawlid, Diwali, o anche tradizioni legate al solstizio d’inverno. Si mostrerebbe così che il mondo è ricco, non omogeneo. Ogni bambino si riconosce in qualcosa e impara qualcosa degli altri. E’ esattamente ciò che accade in Israele e anche in qualche Paese musulmano (Tunisia, Libano ad esempio) dove si vedono decorazioni natalizie e bambini ebrei e musulmani che partecipano ai presepi viventi: non per conversione, ma per rispetto culturale e curiosità umana.

Decolonizzare il Natale è solo un modo per creare un vuoto culturale. Spieghiamo piuttosto ai nostri bambini che Gesù era ebreo, che quando è nato quella terra si chiamava Giudea e non Palestina, parliamo loro dell’occupazione romana che ne ha cambiato il nome e introduciamo il modo in cui le altre fedi hanno riconosciuto in lui un fratello, tanto da trovare posto in ognuna. Il Natale non ha bisogno di essere reso asettico per essere condiviso: ha soltanto bisogno di essere compreso nella sua storia, nelle sue trasformazioni, nelle sue diverse letture religiose.

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