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parlare di opere

Insensatezze che si dicono arte e critici d'arte che continuano a straparlare

Alfonso Berardinelli

La critica è stata sostituita da una cieca apologia pseudo-interpretativa a proposito di qualunque prodotto artistico. In un mondo culturale svuotato di senso, tenuto in vita dalla follia del mercato

Leggo con attenta curiosità, ma anche con sorpresa, il lungo articolo che in questo giornale Francesco Stocchi ha pubblicato venerdì 5 novembre su Michelangelo Pistoletto. A un articolo dello stesso Pistoletto uscito recentemente sul Sole 24 Ore, con cui l’artista presentava la sua mostra in corso alla Reggia di Monza, avevo dedicato un commento non molto rispettoso e molto critico. Avevo trovato inaccettabile la grandiosità di propositi culturali, religiosi e politici con cui l’autore parlava non solo della propria arte ma di un’arte moralmente, teoricamente impegnata benché ridotta a gesto. Il problema e il mio bersaglio polemico non erano certo la persona di Pistoletto e neppure il testo del suo universalistico articolo, quanto piuttosto il modo in cui da decenni, se non da circa un secolo, si parla di arti visive. Dunque anche la mia polemica peccava di universalistica grandiosità. La cosa infatti che non smetteva e non smette di meravigliare è che da tempo non esista più una vera e propria critica d’arte che abbia l’ovvio coraggio di dire dei “no” oltre che degli entusiastici “sì” di fronte a qualunque fenomeno che si presenti come arte. La critica è stata sostituita da una cieca apologia pseudo-interpretativa a proposito di qualunque prodotto artistico.

                                              

 

Dico apologia “cieca” proprio perché si tratta per lo più di oggetti e gesti “provocatori” nei quali non c’è niente da guardare benché pretendano di appartenere a una ipotetica “arte visiva”. Invece di guardare e vedere opere, i critici d’arte interpretano al solo scopo di giustificare assurdità e insensatezze che si autobattezzano arte. Questa prassi vigente da decenni ha creato un mondo culturale separato e svuotato di senso, benché sostenuto e tenuto in vita dalla follia di un mercato internazionale che attribuisce prezzi stratosferici a oggetti e gesti privi di qualunque valore. La banana di Cattelan è stata l’ultima gigantesca truffa, capace tuttavia di fare scalpore e di entrare nella storia delle arti visive. Si è parlato e si parla tuttora di significativi suicidi dell’arte. Ma quante volte può essere replicato un suicidio? E quante volte può entrare nel mercato a prezzi scandalosamente alti? Il fenomeno è quello di un’arte senza arte, senza pubblico e senza critica; un’arte resa reale e significativa da interpreti che la giustificano e la esaltano con vacui filosofemi che con il loro oggetto non hanno nessun comprensibile rapporto. Le arti visive sono invisibili e inguardabili. Sono gesti provocatori ripetuti all’infinito, che ormai non provocano altro che l’assurdità della loro inesistenza venduta a caro prezzo.

Ricordo lo scambio di battute avvenuto mezzo secolo fa a un campione delle arti visive come Josef Beuys, che esponeva come opera d’arte un pezzo di lardo posato su una coperta. Qualcuno gli chiese: “Why did you do it?”. Risposta: “To open a discussion”. Ci fu, c’è stata, la discussione? Sì e no. Eppure i critici d’arte continuano a straparlare. Apro a caso un libro d’arte e ecco come è stata interpretata criticamente un’altra opera di Beuys: “Questo abito di feltro appeso a una stampella trasmette l’impressione del calore umano e le caratteristiche del feltro stesso suggeriscono un senso di sicurezza e di protezione (…) Beuys aderì al movimento Fluxus che si dedicava all’organizzazione di eventi anarchici e questo abito è la copia esatta di quello indossato dall’artista durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam. Beuys considerava l’arte come un mezzo politico e sociale, ma le attribuiva anche una dimensione spirituale e credeva che l’uso di materiali comuni (i suoi favoriti erano il feltro e il grasso animale) potessero avere un potere terapeutico. Considerava il ruolo dell’artista parallelo a quello dello sciamano, che catalizza energia dagli oggetti dando loro nuova forza significante”.

E’ credibile? E’ discutibile, questo? Se così fosse, sarei tentato di considerare un’opera d’arte umanistica il fatto di stare seduto su una sedia di legno scrivendo a mano il presente articolo. Mi manca solo un mercato artistico.

 

 

 

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