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TRA WILDERNESS E DEMOCRAZIA. PERCHé L'EUROPA è UN'ALTRA COSA
Vivace e sconvolgente. La Natura che rende l'America un occidente diverso
Nella terra che chiamiamo Occidente ma che resta irriducibilmente altra, la wilderness americana continua a sfidare la ragione europea: spazio smisurato e forza primigenia, origine insieme luminosa e oscura di una nazione che non smette di reinventarsi e di inquietare
Guardando all’America, l’europeo ancora oggi rimane perplesso. È occidente certo, ma è un altro occidente. Nella dinamica elastica delle relazioni tra queste due facce di una medesima medaglia vi è un’inscindibile legame eppure anche una distanza che appare incommensurabile, una sorta di differenza fondamentale che non riusciamo a cogliere pienamente. Forse per questo, ancora oggi, leggere un libro come La democrazia in America di Tocqueville, un geniale europeo che più europeo non poteva essere in quanto era un nobile francese dell’Ottocento, ci appare così straordinariamente attuale. E forse per questo ancora ci stupiamo dei fenomeni politici che in quella terra dei liberi assumono forme improvvise, insolite e spesso per noi incomprensibili. Fenomeni che sono solo la punta dell’iceberg di un modo evidentemente diverso di volgere lo sguardo sul mondo, sulle proprie esistenze e sugli spazi in cui quelle esistenze sono iscritte. E per chiunque sia stato più o meno a lungo negli Stati Uniti, e per chi di quel continente che ha forma politica di nazione ama la letteratura e il cinema, sono spesso proprio gli spazi in cui le azioni si svolgono a suscitare un fascino enorme e allo stesso tempo straniante.
Questi spazi non sono gli spazi urbani ma della natura, di quella natura che fin dai primi grandi cantori dell’America, penso a Walt Whitman e Ralph Waldo Emerson in particolare, era stata protagonista della grande conquista americana e, allo stesso tempo, del trionfo dell’uomo su di essa. Un trionfo però mai compiuto, perché proprio l’enormità insuperabile di quello spazio oppone una sorta di resistenza assoluta alla conquista, costituendo, allo stesso tempo, una risorsa infinita di energie per quella nazione in perenne costruzione. Scrive Emerson nel suo straordinario saggio intitolato appunto "Natura": “Qui la Natura è la circostanza che sovrasta tutte le altre circostanze, e giudica come un Dio tutti gli uomini che si addentrano in essa”. L’esperienza della natura, del suo addentrarsi in essa lasciando gli spazi abitati, è un’esperienza totalizzante e insieme radicalmente individuale perché si può fare esclusivamente da soli, in una sorta di corpo a corpo. Allo stesso tempo, non è mai un’esperienza contemplativa, seppure può certo esserlo, ma è quasi sempre un’esperienza di conflitto, di sfida che ha a che fare con una parola fondamentale e di fatto intraducibile, che riflette la componente selvaggia, inconquistabile, che sta al cuore del paesaggio americano: wilderness.
Questa espressione, che ha che fare tanto con il paesaggio naturale quanto con una componente dello spirito, rappresenta perfettamente l’impossibilità di assimilare per intero quegli spazi colossali e perlopiù disabitati, e, allo stesso tempo, rappresenta la sorgente selvaggia e sempre viva da cui scaturisce la forza vitale, e certo anche la violenza e l’imprevedibilità di quella nazione.
Due monumenti letterari del secondo Novecento, diversissimi per luoghi e stile ma con una profondissima affinità sulla percezione di quella che appare come la sorgente oscura dell’energia americana, bastino come esempio: Stephen King e Cormac McCarthy.
King ambienta molte delle sue storie nel civilizzatissimo New England in cui però i boschi cingono quell’intera civilizzazione con il loro carico simbolico di oscurità che è tipico di ogni foresta. Da lì tutto può venire, da lì ogni cosa può uscire all’improvviso e assalirci. Da lì ogni forma terrifica può divenire incubo realissimo. Un orizzonte sempre da esplorare o da cui guardarsi, da cui difendersi, o che la civiltà deve ancora conquistare.
Le grandi pianure del centro, sbalorditive e agorafobiche per chiunque le abbia percorse, punteggiate talvolta da fattorie o piccoli centri abitati che sembrano avamposti del nulla. O ancora le lande semideserte del sudovest dove McCarthy ha svolto le sue narrazioni più crudeli e iper-realiste, dove la violenza si manifesta come il comportamento più adeguato all’indifferente potenza senza voce di quei paesaggi talmente sconfinati da sfuggire a qualsiasi presa della ragione. E così i suoi personaggi si abbandonano a una violenza che va oltre la ragione; come se la violenza fosse il tentativo ultimo, folle e disperato di estrarre un qualche senso da quei luoghi, o di dimostrarne l’assoluta insensatezza.
La prossimità del selvaggio nel massimo dell’avanzamento. Il paese più avanzato del mondo è ancora dentro la wilderness e questo sembra conferirgli giovinezza e, insieme, un’inestirpabile oscurità da cui pure sembra venire la sua sorgente di forza inesauribile. L’oscurità della wilderness attrae, invita ad entrare in essa per capirla, per scoprire, per rivelare. E quindi richiede una sorta di continua attività pionieristica. Allo stesso tempo l’oscurità della wilderness va combattuta ed è un combattimento eminentemente interiore che comunque tiene attaccati al fatto che bisogna combattere per esserci, che le cose non si possono dare comodamente per scontate, altrimenti la wilderness avanzerebbe inglobando ciò che è luminoso e civilizzato nella sua oscurità.
La wilderness è anche il contatto con “l’assolutamente altro”, con ciò che è massimamente sconosciuto ma che pure ci è prossimo. La wilderness è la personificazione di ciò che c’è ma non riusciamo pienamente a capire, a rendere nostro. Un continuo invito tanto a difenderci quanto a scoprire. E’ timore e tremore, eppure stimolo. E ciò rende quel luogo sempre “fresco”, ancora nuovo, ancora da scoprirsi. Questo sembra contribuisca a mantenerlo il posto più vivace del mondo, con tutto ciò che di sconvolgente questo può comportare.