Screenshot da YouTube (dal film Another Country)

Il libro

Piccolo poema delle illusioni perdute dedicato all'insospettabile Burgess

Marco Archetti

“Una spia in esilio” di Alan Bennett racconta la storia dell'agente doppiogiochista inglese al servizio dell'Unione sovietica. Per tutta la commedia il personaggio si muove in una penombra di delusione, in un crepuscolo accettato con fatalismo, in cui tutti i significati sono caduti o quasi

Immaginatevelo con la faccia di Rupert Everett. Era proprio quella, nel film “Another country, La scelta”, anno 1984. Guy Burgess, agente doppiogiochista inglese al servizio dell’Unione sovietica – uno degli insospettabili “Cinque di Cambridge” – ha ispirato, con la sua intensa attività spionistica, numerose opere teatrali, film e film televisivi. Prima di Everett toccò a Derek Jacobi e a Anthony Hopkins. Quanto alla sua, di faccia, quella vera la trovate in rete. Nato nel 1911 e morto a Mosca nel 1963 per attacco di cuore all’età di cinquantadue anni, studente all’Università di Cambridge già antidemocratico e non esattamente filocapitalista, corrispondente della Bbc e infine anche ministro degli Esteri per la Corona, aveva capelli ondulati, bocca da ragazza imbronciata e sguardo fondo.

 

Il che è perfetto, soprattutto dovendolo immaginare mentre ci si beve “Una spia in esilio” di Alan Bennett (Adelphi, 130 pagg., 13 euro), copione della commedia che lo vede protagonista in compagnia della non più giovane Coral Browne. La storia parte da qui: la spia deve assegnare all’attrice una missione futile e cruciale. Bennett coglie Burgess da solo, in pieno languore, astro semitramontato. “Quando sono entrata nel caseggiato ho visto un ragazzo che giocava a scacchi seduto sulle scale,” gli dice lei apparendo in scena. E lui: “Polizia. I primi tempi ero sorvegliato dai pezzi grossi. Adesso mandano le reclute.”

 

Appena nominato secondo segretario all’ambasciata inglese di Washington, il suo capo, Hector McNeil, diede a Guy Brugess tre raccomandazioni. La prima: non lasciar trapelare le sue simpatie di sinistra. La seconda: non impegolarsi in rapporti interrazziali. La terza: stare alla larga dagli scandali sessuali. “Capisco,” rispose Guy, “mi stai dicendo che non devo fare il filo a Paul Robeson”. Robeson era un famosissimo attore, attivista dei diritti civili, protagonista tra il 1935 e il 1937 di film di grande successo in Inghilterra come “Bozambo, il gigante nero” e “King’s Solomon Mines”. Parlava venti lingue e pare che lo volesse in un film niente meno che Sergej Ejzenstejn, ma non se ne fece nulla perché a causa delle sue simpatie comuniste gli Usa gli ritirarono il passaporto. Mosca lo risarcì col Premio Lenin per la pace nel 1952, che Robeson non poté ritirare. La sua ombra si allunga su tutta la storia raccontata nella commedia di Bennett, diventando la madeleine del tempo perduto e di tutte le occasioni mancate. Commedia che per tre quarti è molto divertente, e proprio nel senso lubitschiano della parola: dialoghi serrati, umorismo sottile, andazzo screwball. Con alcuni momenti di malinconia e osservazioni molto acute. “Posso dire che amo Londra”, confessa Guy all’attrice australiana, dopo averle chiesto di commissionargli un abito dal suo sarto di fiducia londinese perché quanto a moda, i russi, vabbé. “Posso anche dire che amo l’Inghilterra,” aggiunge dandole un metro da sarto. “Che amo la mia patria non lo posso dire, perché per me non ha senso”.

 

Per tutta la commedia il personaggio di Guy Burges si muove in una penombra di delusione, in un crepuscolo accettato con fatalismo, in cui tutti i significati sono caduti o quasi. Le quinte cedono, le assi scricchiolano, e se l’Inghilterra non è una patria, Mosca non sarà mai casa. E Burgess chi è? Un apolide frivolo, uno spaesato, uno che non è stato niente. “Se questo è il comunismo, non lo voglio perché è noioso”, cinguetta Coral, attrice “non tanto intelligente, secondo i suoi canoni, caro Guy”. Poi mette giù le carte: “Di moralità posso esibirne pochina, e la parola tradimento per me ha senso solo in Shakespeare. Lei ha pisciato nella minestra e noi ce la siamo bevuta”. A Londra ci andrà, e cercherà di fargli fare un abito su misura. Ma i conti si fanno con l’oste – qui, sarto.

 

E’ un piccolo poema delle illusioni perdute, “Una spia in esilio”. Parte a razzo e poi rallenta, favorendo una lettura in controluce e trasformandosi in una tragicommedia brillante dalle certezze opache, una presa d’atto dei tradimenti impossibili, ormai perfino inutili. “Se anche uno volesse sacrificare il proprio Paese”, ci dice Bennett, “non c’è più nessuno a cui valga la pena sacrificarlo”.

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