Ansa
La storia è ciclica
Malaparte e la razza dei giovani piccolo borghesi che non hanno il coraggio di farsi proletari
Lo scrittore e giornalista pratese nel suo Giornale di uno straniero a Parigi parla di una città cambiata dopo quattordici anni di lontananza e della nuova generazione di ragazzi che sta sorgendo in Europa che manca "di coraggio e di spirito di sacrificio”
Si sa, i francesi coccolano gli intellettuali, così come facevano dopo la guerra gli americani con gli scienziati europei. E per uno straniero che è stato felice, hemingwayanamente, nella sua gioventù parigina, tornare è come tornare dall’esilio. O almeno è quello che dice quel pratese sassone di Curzio Malaparte, l’Arcitaliano, nel suo "Giornale di uno straniero a Parigi" (Adelphi, a cura di M. Fagotti e M. Zanardo). Ci sarebbe tanto da dire di questo diario, scritto nel 1947 e nel 1948, che contiene un vero e proprio abecedario di massime malapartiane, sempre con quella saggezza larger than life. Ci sarebbe tanto da raccontare dei suoi pranzi, tra scrittori polacchi, ragazze della Villette, diplomatici italiani, degli ebrei arrivati dai campi che vagano con sacchi pieni di stracci in metrò. E poi delle sue descrizioni accorate di una Parigi cambiata dopo quattordici anni di lontananza, rovinata dalla guerra e dall’esistenzialismo, con il suo cielo che è un “lago grigio-azzurro”, e “a tratti, un cielo di Manet”, senza citare i vari quadretti della città che rendono sempre così eccezionali, nonostante siano infiniti, i libri su Parigi dei grandi autori.
Ma concentriamoci su una delle varie filippiche apodittiche del Malaparte, di cui scrive il 13 settembre del ’47, con una profetica lucidità. E’ un discorso, che poi riprende più volte nel diario, di analisi su quella che chiama nuova “razza dei giovani piccolo borghesi” che sta sorgendo in Europa, e che “invade le nazioni e sommerge ogni cosa” e su cui il suo amico libertario Boussinot sta scrivendo un libro. Questi giovani hanno “il disgusto della borghesia”, ma non hanno il coraggio di sentirsi proletari, “di mescolarsi agli operai”, di spezzare i legami che li legano alla loro classe, “al passato, agli agi, alla possibilità di un avvenire sicuro (piccolo impiego, piccolo commercio, professioni liberali minori, eredità del commercio paterno, della piccola proprietà paterna, dell’ufficio paterno già avviato con clientela, ecc.) e al tempo stesso” si sentono privi “della necessaria cultura, del coraggio, per affrontare i problemi come borghesi”. Che senso ha, si chiede Malaparte, scomodare Kierkegaard e Heidegger e il concetto dell’angoscia “per giustificare tutta una generazione di spostati?”. Non sono pederasti ma scimmiottano la pederastia, non sono poveri ma scimmiottano la povertà, e uguale con l’essere bohème e con l’essere angosciati. Hanno paura del comunismo ma ne provano anche una certa simpatia. Compiono, anche per colpa di Sartre, una proletarizzazione esteriore, ma mantengono i vizi borghesi. Tutte quelle “espadrilles” e i “visi mal rasati” e i capelli lunghi, non sono che segnali di un “mimetismo di natura sociale”, perché in fondo hanno paura, e inconsciamente vogliono assomigliare “all’elemento base delle società moderne: la massa”.
Sono “dei piccoli borghesi che si vergognano di essere borghesi e non hanno il coraggio di saltare il fosso, di farsi proletari, di accettare il destino di un operaio”, e se arrivassero nuove “avventure” comuniste o fasciste non saprebbero da che parte stare, sarebbero “indecisi, amorfi”. Assurdo, dice Malaparte, che questa generazione che si richiama così spesso e con tanta insistenza agli ideali e all’eroismo della resistenza “manchi di coraggio e di spirito di sacrificio”. Ciclicità della storia.