Bronzino, Donna in rosso con bambino (Gracia Nasi?)

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L'ebraismo in segreto di Beatriz de Luna

Giorgio Caravale

Nell’Europa chiusa nei dogmi, Gracia Nasi costruì ponti e intrecciò relazioni. Tra fede e fuga, esilio eaffari 

A metà del Cinquecento, mentre l’Europa bruciava nelle guerre di religione e al tempo stesso si apriva ai commerci globali, una donna di origini sefardite riuscì a fare ciò che nessun uomo del suo tempo aveva osato: costruire un impero senza trono, fondato sulla fede, sull’esilio e sul denaro. Si chiamava Gracia Nasi – o meglio, Beatriz de Luna, il nome che aveva assunto da “nuova cristiana” – e la sua parabola attraversa le geografie mobili di un continente che l’Inquisizione stava chiudendo dentro le sue frontiere dottrinali.

La sua vita è un romanzo vero, che comincia a Lisbona sotto il segno della persecuzione e si conclude a Costantinopoli sotto quello dell’esilio e della libertà. Nata intorno al 1510 in una famiglia di ebrei convertiti al cristianesimo, Beatriz non conobbe mai davvero la sicurezza. Nel 1497, infatti, il re Manuel I aveva imposto la conversione collettiva degli ebrei portoghesi, trasformandoli in cristãos novos, “nuovi cristiani”, per l’appunto: un compromesso politico dettato dall’alleanza matrimoniale con la corona di Spagna, che vietava ai suoi sovrani di convivere con ebrei non battezzati. La violenza non fu quella dei roghi, ma quella più lenta e insinuante dell’assimilazione forzata: battesimi di massa, confische, obblighi di nome e di abito cristiano.

 

               

 

Nei decenni successivi, le comunità dei conversos vissero in una precarietà costante. Formalmente integrate, erano però sorvegliate, denunciate, diffidate. La giovane Beatriz crebbe in questo mondo doppio, dove la fede ebraica sopravviveva dietro le tende chiuse delle case: si andava a messa la domenica, ma si accendevano le candele del sabato in segreto; si battezzavano i figli, ma si sussurrava ancora lo Shema Israel. In questa clandestinità domestica, il confine fra identità e travestimento diventava un’arte di sopravvivenza.

Il matrimonio con Francisco Mendes Benveniste, uno dei più ricchi banchieri di Lisbona, la catapultò nel cuore delle reti finanziarie che univano l’impero portoghese alle Fiandre, all’Italia e alla Spagna. I Mendes erano una potenza silenziosa: finanziavano spedizioni, commerciavano oro e spezie, prestavano denaro ai re. Ma la ricchezza non bastò a proteggerli. Nel 1536, con l’istituzione formale dell’Inquisizione portoghese, la persecuzione divenne sistematica: dopo aver devastato la Spagna, il tribunale della fede estendeva la sua rete anche oltre i Pirenei, cercando nei cristãos novos i “giudaizzanti” da punire.

Fu allora che Gracia cominciò a esercitare un’altra forma di potere: quella della fuga. Alla morte del marito, ereditò un patrimonio immenso e una rete di corrispondenti che attraversava tutta l’Europa. Ad Anversa, dove la famiglia aveva una filiale, continuò a gestire gli affari con una lucidità che pochi uomini d’affari del tempo avrebbero saputo eguagliare. Usava pseudonimi, cifrari, agenti. Nelle lettere commerciali, ogni parola poteva essere un messaggio nascosto: “spedire la seta” era un ordine di credito; “una spedizione a Venezia” poteva significare l’espatrio di una famiglia. La sua banca era anche un rifugio morale: un sistema che teneva insieme affari e salvezza. Mentre Carlo V faceva arrestare i mercanti sospetti di eresia, la Señora, come la chiamavano i suoi agenti, trasformava il commercio in una forma di resistenza.

 

Usava pseudonimi, cifrari, agenti. Nelle lettere commerciali, ogni parola poteva essere un messaggio nascosto

           

Il pericolo, però, non arrivava solo dai tribunali. C’era la macchina amministrativa delle confische: bastava un sospetto, una delazione, e i beni dei conversos venivano sequestrati a beneficio del fisco e del Sant’Uffizio. C’erano i familiari dell’Inquisizione, reti di informatori che controllavano vicoli e porti. C’era la nuova ideologia della limpieza de sangre, che impediva l’accesso alle carriere ecclesiastiche, giudiziarie, universitarie a chiunque avesse antenati ebrei. Era una forma di esclusione moderna, burocratica, che siglava il confine tra “puri” e “impuri”. In questo sistema, Gracia imparò a non restare mai a lungo nello stesso luogo.

Quando anche Anversa divenne pericolosa, riuscì a corrompere le autorità e a fuggire prima dell’arresto, portando con sé la figlia Ana e parte della sua fortuna. Attraversò la Francia, toccò Lione e Venezia, approdò infine a Ferrara, sotto la protezione del duca Ercole II d’Este. Era la metà del secolo, e Ferrara – cosmopolita, umanistica, tollerante – divenne per qualche anno il suo rifugio e la sua rinascita.

Qui, in una città in cui la comunità ebraica viveva con libertà quasi inedita, Gracia trovò il modo di restituire senso alla sua ricchezza. Finanziò la pubblicazione della Biblia de Ferrara (1553), la prima traduzione completa della Bibbia in spagnolo destinata agli ebrei sefarditi. Il volume, stampato da Abraham Usque e Yom Tob Atias, era pensato per coloro che avevano perduto l’ebraico ma conservavano la lingua dell’esilio, e rappresentava una reconquista culturale: leggere la Scrittura nella lingua proibita, ridarle la voce che l’Inquisizione aveva tentato di cancellare.
La Bibbia non fu un caso isolato. Intorno a Gracia nacquero altri testi: libri di preghiera, consolazioni, raccolte di sermoni che circolavano tra Ferrara, Venezia e il Levante. La stampa divenne un’estensione del suo progetto politico e spirituale. Dove l’Inquisizione bruciava, lei stampava. Dove Roma imponeva indici di libri proibiti, lei creava un controcanone diasporico, un atlante di resistenza. Il libro, come la sua vita, era una forma di esilio.

Proprio da Ferrara si capì quanto la sua influenza potesse farsi geopolitica. Nel 1556, dopo gli autodafé di Ancona contro i conversos, Gracia orchestrò un boicottaggio dei traffici verso quel porto pontificio, deviando i carichi verso Pesaro e altri scali amici. Fu un atto senza precedenti: usare la leva del credito, delle assicurazioni e dei noli per punire uno stato sovrano e proteggere la diaspora. Le sue lettere circolarono tra Salonicco, Venezia e Smirne, e per mesi i capitani sefarditi evitarono Ancona, colpendo i dazi pontifici e imponendo all’Europa l’evidenza di un potere non statale capace di cambiare le rotte.

 

Nel 1556, dopo gli autodafé di Ancona contro i conversos, Gracia orchestrò un boicottaggio dei traffici verso quel porto pontificio, deviando i carichi verso Pesaro e altri scali amici. Fu un atto senza precedenti

                            

Nel frattempo nel 1555, con l’elezione di Paolo IV Carafa e la nuova ondata repressiva della Controriforma, l’Italia divenne meno ospitale. Gracia salpò verso l’oriente, diretta a Costantinopoli, dove il sultano Solimano il Magnifico aveva accolto gli ebrei espulsi dalla Spagna. Era la fine di un pellegrinaggio e l’inizio di un regno. A Istanbul, la Señora costruì un vero principato dell’esilio: un palazzo sul Bosforo, una corte di mercanti e intellettuali, un sistema di affari che si estendeva da Anversa a Damasco.

Lì la sua autorità prese la forma della filantropia e della cultura. Sostenne scuole, sinagoghe, ospedali; riscattò prigionieri ebrei catturati dai corsari cristiani; finanziò stampe religiose in ebraico e in ladino. Nella sua casa si discuteva di diritto, di astronomia, di mistica. Le cronache ottomane la descrivono come una donna “più potente di molti visir” e “più ascoltata dei rabbini”. La sua influenza era tale che ambasciatori veneziani e mercanti francesi la citavano nei rapporti come “la donna più ricca e rispettata del Levante”.

Nel mondo ottomano, il sistema dei millet – che organizzava le minoranze religiose in comunità autonome sotto la protezione del sultano – riconosceva alle comunità religiose una larga autonomia: i sefarditi potevano amministrare scuole, tribunali rabbinici, confraternite, tipografie. Questo quadro legale permise alla rete della Señora di istituzionalizzarsi: le opere pie divennero fondi stabili, le scuole un vivaio di scribi e correttori, la stampa un circolo virtuoso tra devozione e commercio. A differenza dell’Europa inquisitoriale, qui pluralità e utilità non erano in contraddizione.
Accanto a lei agiva Joseph Nasi
: nato João Miquez, nipote e poi genero per le nozze con Reyna, figlia di Gracia. Dotato di senso politico e di una rete di relazioni europee, fu consigliere di Solimano e poi di Selim II; nel 1566 ottenne il titolo di duca di Nasso. Se Gracia fu il cuore di una comunità diasporica, Joseph ne divenne il braccio politico: influì sui traffici del Levante, trattò con ambasciatori cristiani e funzionari della Porta, spostò capitali e orientò decisioni.

Fu insieme – con la visione di Gracia e la forza di corte di Joseph – che prese forma il progetto più audace: Tiberiade. Nel 1558 ottennero dal sultano la concessione della città e delle terre circostanti, con l’obiettivo di riportare in Galilea famiglie sefardite dall’Europa. L’idea era concreta: riparare mura, riaprire mercati, seminare gelsi per una sericoltura capace di sostenere l’insediamento, riattivare scuole rabbiniche e officine tipografiche in più lingue. Non un pellegrinaggio, ma un’economia del ritorno.

 

Se Gracia fu il cuore di una comunità diasporica, Joseph ne divenne il braccio politico: influì sui traffici del Levante, trattò con ambasciatori cristiani e funzionari della Porta, spostò capitali e orientò decisioni

                 

Il progetto incontrò ostacoli: rivalità locali, costi ingenti, difficoltà logistiche, resistenze anche dentro il mondo ebraico fra chi temeva l’azzardo. Eppure Tiberiade resta uno dei gesti più straordinari della storia ebraica moderna: il tentativo, ante litteram, di trasformare l’esilio in fondazione. Joseph curava i permessi, i rapporti con la Porta e la cornice diplomatica; Gracia ne garantiva finanza, rete e legittimazione culturale, immaginando una città capace di parlare all’ebraismo disperso e di dialogare con i vicini musulmani e cristiani. Più tardi, la parabola di Joseph toccò anche la grande politica mediterranea: le sue pressioni sulla questione di Cipro rivelano quanto il potere ebraico di corte, per quanto fragile, potesse entrare nel gioco degli stati.

Intanto, la diaspora sefardita trovava a Salonicco uno dei suoi porti più vitali: una città piena di ladino – la lingua viva degli ebrei sefarditi, uno spagnolo del Quattrocento sopravvissuto all’esilio e trasformato in idioma della diaspora – di mestieri, di tipografie, dove le famiglie arrivate dalla penisola iberica ricostruivano comunità e istituzioni. Molti dei flussi economici e umani che passavano per Salonicco, Smirne, Aleppo avevano toccato, direttamente o indirettamente, la rete della Señora. Le sue lettere di cambio legavano l’Atlantico al Levante; i libri che aveva voluto in castigliano consolidavano una koiné sefardita che resisteva al tempo e alle frontiere.

Negli ultimi anni della sua vita, Gracia visse in mezzo a un mondo che sembrava anticipare la modernità. Le sue lettere viaggiavano su rotte parallele a quelle delle spezie; le sue transazioni bancarie attraversavano confini che nessuna teologia poteva giustificare; i suoi libri circolavano nelle case dei marrani che continuavano a pregare in castigliano. Era un’Europa in miniatura, fatta di corrieri, di stampatori, di mercanti: la rete della Señora univa i porti del Mediterraneo alle fiere del Nord, i conventi di Anversa alle sinagoghe di Salonicco.

La sua vita, osservata oggi, mostra come fede e finanza possano intrecciarsi senza confondersi. Nei decenni in cui Roma cercava di uniformare la cristianità e l’Inquisizione di purificare le coscienze, Gracia Nasi costruiva un’altra idea di universalità: non teologica, ma pratica; non missionaria, ma ospitale. L’esilio, da condanna, diventava condizione di conoscenza.
Nel suo itinerario da Lisbona a Istanbul, passando per Ferrara, si legge l’altra faccia del Rinascimento: quella che non costruisce cattedrali, ma ponti; che non converte, ma traduce. Laddove la Spagna e il Portogallo tentarono di cancellare la pluralità, lei la trasformò in risorsa. Il suo cosmopolitismo era insieme spirituale e commerciale, etico e materiale: un modo di abitare il mondo senza possederlo.

Cinque secoli dopo, questa donna senza patria continua a parlarci. In La Señora (Laterza), Maria Giuseppina Muzzarelli – sulla scia degli affascinanti affreschi di Cecil Roth e Marianna D. Birnbaum – la racconta come un simbolo di resilienza e intelligenza politica femminile, capace di muoversi tra banche e sinagoghe, tra Ferrara e Costantinopoli, tra devozione e diplomazia. E’ la storia di chi costruisce potere senza troni, di chi sopravvive non fuggendo ma trasformando ogni fuga in progetto.

Quando morì, intorno al 1569, aveva lasciato dietro di sé una rete che attraversava tre continenti e un’idea di libertà che nessun tribunale avrebbe potuto processare. La sua eredità non è solo nei libri che fece stampare o nei commerci che fece prosperare, ma nel principio che li univa: la convinzione che sapere, lingua e memoria siano le vere forme della salvezza.  In un’Europa che allora si chiudeva nei dogmi e oggi nei confini, la figura di Gracia Nasi torna a ricordarci che la storia non si divide tra oriente e occidente, tra fede e ragione, ma tra chi accende fuochi e chi costruisce ponti. E che la modernità, forse, è cominciata il giorno in cui una donna perseguitata comprese che la libertà non è un luogo da raggiungere, ma una rete da tessere.

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