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"realismo socialista in versione yankee"
Il lato comico, sadico e pungente di tre vite che galleggiano sui rimpianti
Un uomo mediocre incatenato alle dinamiche professional-familiari e alle proprie paure, un architetto che a Milano lotta contro l'idea di tornare a Phnom Penh, un impavido anziano a Roma con la pistola sotto al comodin. Maurizio Serra torna alla narrativa: “In visita”, per Neri Pozza
"Amo i diplomatici, amo la loro compagnia, la loro conversazione. Solo i diplomatici, ai giorni nostri, possono prendere nella società il posto dei dotti gesuiti del XVII secolo, che tornavano dall’Oriente”, scrive Curzio Malaparte nel suo Giornale di uno straniero a Parigi (Adelphi). Possiamo confermare le parole dell’arcitaliano, aggiungendo che dei diplomatici amiamo anche i loro libri, o almeno quelli di Maurizio Serra, che è anche membro dell’Académie française (primo italiano della storia). Se Serra in passato ci ha arricchiti con le sue biografie – Malaparte, appunto, e poi Svevo, D’Annunzio… – e con i suoi saggi, ora l’Immortel torna alla narrativa per Neri Pozza con In visita. Tre racconti, che potrebbero essere finestre aperte sullo stesso romanzo che è la vita di chi galleggia sui rimpianti.
Un uomo mediocre – “la saggezza consiste per me nel rischiare il meno possibile”, dice – incatenato alle dinamiche professional-familiari e alle proprie paure, si ritrova a ripensare a un vecchio misterioso scrittore esiliato che incontrava in gioventù in costiera e che gli mostrava il suo gemello di corniola regalatogli dal Vate. La vita dell’uomo avventuroso fa così da specchio alla sua, così grigia, da “soldatino”, che verrà poi narrata dalla figlia, per chiudere le fila di tutto. La seconda storia è quella di un architetto, “con l’efficienza lombarda che gli scorre nel sangue”, che in una torrida Milano lotta contro l’idea di tornare a Phnom Penh (lasciamo ai lettori scoprire perché). La voce in prima persona funziona come una confessione dei propri ripensamenti. La terza finestra – un congedo – si apre invece su un impavido anziano nel centro di Roma, un governatore di un paese lontano che si tiene la pistola sotto al comodino e che si era illuso, arrivando nella capitale, “che la letteratura potesse finalmente venirgli in soccorso”.
Nei tre racconti luoghi, elementi, tragedie si intersecano di tanto in tanto, costruendo un mondo solido, un luogo con le sue scene patetiche, ma che è soprattutto divertente. Questo sguardo proustiano sui sentimenti e sagace sulle intenzioni, mix che possiamo attribuire a chi ha visto il mondo, non solo è spietatissimo, ma porta il lettore a ridacchiare. Nelle mani di Serra la scrittura narrativa ritrova quel lato comico, sadico, pungente che oggi spesso non troviamo nell’offerta letteraria contemporanea nazionale, che troppo spesso si prende così sul serio. Forse perché oggi non si può esser “cattivi”, non si possono puntare i riflettori dell’intelligenza sui difetti, sui tic, sulle debolezze (salvo poi farlo segretamente nelle chat), riflettori che sono il cuore della comicità, qui arricchita dall’amore per il dettaglio (tra poltrone di Alvar Aalto e pseudonimi da Recherche).
Respiro di sollievo, dunque, tra queste pagine dove troviamo cose come: “realismo socialista in versione yankee”, getti di vomito che appaiono come “festosi” fuochi d’artificio al tramonto, serie di culto come “Tutti sbudellati, ambientata tra i promettenti delinquenti in erba di un asilo del centro storico”, persone affiliate alla APeGT (Associazione Portieri e Guardiani Trotzkisti)”. “Per l’ennesima volta, si disse che un paese che chiama brioche vuota a Milano quello che a Roma diventa cornetto semplice non diventerà mai una nazione”.