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Un incontro alla Reggia di Monza

Altro che pensare o ricercare: l'arte di Pistoletto è la celebrazione del fare

Francesco Stocchi

Natura e artificio, spiritualità e religione. Lo sport come linguaggio, lo specchio come strumento di conoscenza. Chiacchierata con l’autore della “Venere degli stracci”

L’occasione è la mostra in corso alla Reggia di Monza. Ma non cerchiamo un racconto, quindi l’occasione si fa sublime pretesto perché incontrare Michelangelo Pistoletto significa ritrovarsi davanti a un artista che trasforma ogni gesto in una domanda sul nostro modo di stare al mondo. Quando si parla con Pistoletto non si parla di lui ma di noi, sotto allo sguardo vigile e affettuoso di Maria Pioppi, compagna di vita e di lavoro che poi qui sono esattamente la stessa cosa. E il mondo lo gira questo instancabile novantaduenne dallo sguardo messianico, generoso con le proprie vedute, vivace, insomma carico di quell’entusiasmo contagioso proprio del bambino (come si dice). Ci sediamo e lui già sta parlando, voglioso di condividere, in un atto di proselitismo culturale che rende naturalmente semplice e piacevolmente spontaneo il nostro incontro.

C’è un punto, più in là nella conversazione, in cui la parola “scarto” emerge tra le tante, poi la rovescia e diventa chiave. Perché per Pistoletto lo scarto è il fenomeno, l’inizio del pensiero. L’umanità comincia lì, nello slittamento tra natura e riflessione. Lo dice quasi di sfuggita: “L’essere umano è metafisico perché vive naturalmente e pensa artificialmente”. Una frase che sembra fluttuare leggera, eppure pesa quanto un manifesto della nostra contemporaneità. Parlare con Pistoletto significa confrontarsi con un’idea di arte come processo fisiologico dell’umano, una secrezione vitale quanto il linguaggio. Parliamo quindi subito del bambino anche perché mi interessa la questione di responsabilità dell’artista. Come si pone rispetto a sé stesso e la società, il gesto privato adottato dalla collettività etc. Fino ai dieci anni, il bambino crea senza responsabilità, poi inizia a copiare. La creazione sta innanzitutto nel mantenere vivo quel senso di irresponsabilità? Se l’artista è colui che vive nell’impulso, come si coniuga l’impegno umanistico della sua arte?, gli chiedo. “E’ il sistema culturale che accoglie, etichetta, istruisce. L’artista, invece, svuota, abbandona le possibilità. Questo è il lavoro di Oggetti in meno”, che Pistoletto descrive con estrema naturalezza. “Ogni opera nasceva dal possibile. Non lo sapevo prima; solo quando era finita era pensabile”. Qui la teoria è una congiunzione con il gesto nella celebrazione assoluta del “fare”, rispetto alle nuove generazioni che non fanno altro che pensare, “ricercare”… “Il possibile non è un pre-ordine, ma qualcosa di istantaneo, si prova e già è”. Una poetica anti-sistemica che è al contempo la più sistematica. “Anche i celebri Quadri specchianti sono concepiti allo stesso modo, non come figura ma come fenomeno. Nella loro genealogia, la figura che era dipinta da dietro nasceva subito, per necessità. Lo specchio riflette ciò che è davanti e al centro, mentre l’artista è per sempre dietro. La cornice non c’è più, è al centro”.

La pittura specchiante diventa un organismo – un apparato che porta il tempo nell’immagine, sembra quasi che la pittura sia stata improvvisamente costretta a muoversi da qualche forza vitale. L’opera non rappresenta più ma accade. “C’è questo momento fisso che apre a qualche cosa che non dico io, è lì si apre alla fenomenologia. L’opera è fenomenologica, è per questo che è scientifica, è il fenomeno così com’è. Allora poi mi metto a studiare il fenomeno attraverso i miei quadri come Il metro cubo di infinito dove ho fatto la divisione e moltiplicazione dello specchio, lo specchio come strumento di indagine”. Da qui nasce ciò che Pistoletto chiama “prospettiva circolare”, che sembra sorgere dalla storia dell’arte ma invece ne sovverte i suoi principi rappresentativi. “Col ’900 si è chiusa la prospettiva, perché è nata l’introspettiva, l’introspettiva dell’arte”. Chapeau.

Tutto questo impeto, i concetti chiarissimi, cristallini mi fanno sorgere il dubbio che Pistoletto, anzi Michelangelo, le abbia ripetute spesso, queste cose. Non vorrei annoiarlo, allora mi muovo sul personale, origini, ricordi, prime esperienze. “Nella Valle di Susa andavamo a incontrare i contadini che ti facevano vedere il loro laboratorio di costruzione, facevano le sedie, sapevano saldare, filare, tessere, facevano tutto, tutto. Poi l’industria ha cambiato moltissimo, per cui l’economia è diventata un sistema di scambio e non reale. Perché quello scambio sarebbe basato sulla necessità. L’economia di mercato invece crea. La Venere degli stracci è la rappresentazione di questo superfluo che supera tanto da diventare invasione del detrito. Ci sono spiagge in Africa che sono coperte da metri e metri di tessuti”.

L’arte, secondo Pistoletto, è il concetto fondamentale dell’essere umano, perché impone artificio, e cioè la possibilità di rendere il mondo nuovo. Una possibilità che è incanto e rischio, creazione e distruzione. “Oggi la produzione artificiale supera la produzione naturale,” ricorda con un tono che non è accusatorio ma fattuale. E’ già accaduto, l’artificio ha prodotto un secondo pianeta, uno strato aggiunto di materia umana che si sovrappone a quello naturale. Questo dà origine alla necessità di responsabilità, che è un termine sempre presente e non porta complessità morali. La responsabilità è l’equilibrio tra impulso e coscienza, tra libertà e limite. L’artista sarebbe quindi l’incarnazione ossimorica del bambino responsabile… Anche quando descrive colui che a Napoli ha bruciato la Venere degli stracci (1967), Pistoletto non si rifugia nel giudizio degli altri, ma nella comprensione. In breve, la responsabilità è un esercizio pratico, un tentativo continuo di ricostruzione. “La Venere ha avuto successo in pochissimo tempo, e continua fino ad ora, perché possiamo vedere ancora come quel lavoro è un’icona che smuove, smuove opinioni. Vedi Napoli. E’ interessante, il disagio, perché la persona che gli ha dato fuoco è stata la dimostrazione del disagio totale, personificato, arrivato proprio a voler dare fuoco all’opera d’arte”.

Pistoletto è XXL, in tutto, dalla fisicità, allo sguardo che ti offre, fino alle tematiche che affronta. Non a caso la mostra a Monza dura un anno (fino al 31 ottobre 2026). E’ qui che Pistoletto si muove naturalmente per parlare di religione, ma non come dogma quanto come grammatica per la connessione. La mostra dal titolo “UR-RA” presenta opere accomunate dall’idea di linguaggio universale, arricchite da una tavola interreligiosa. Ci sarà una serie di incontri intorno al rapporto tra spiritualità e religione, che sono due parole che si accompagnano. La spiritualità effettivamente viene poi tradotta in una pratica che si chiama religione ma la religione – lo dice la parola stessa – è religare, unire, e quindi le persone si uniscono con il pensiero perché gli animali non hanno bisogno di un’organizzazione artificiale, loro vivono un’organizzazione naturale. Gli esseri umani invece hanno bisogno di organizzarsi artificialmente. Ecco che l’uomo pensa”. Eccoci al punto che la spiritualità è la naturale continuazione della ricerca della conoscenza, il desiderio di elevarsi al di sopra dell’ignoranza iniziale. Il monoteismo sarebbe stato allora la necessità di creare qualcosa che dobbiamo avere, un simbolo condiviso, un mezzo di comunicazione. In questo senso, il Terzo Paradiso è la mappa di quella relazione: io, tu, e il luogo dove nasce il “noi”. Non un segno mistico, ma un mezzo intuitivo di essere. Ogni volta che Pistoletto ritorna alla parola “infinito” – e lo fa spesso – non lo fa con la primazia del metafisico, ma con la precisione del tecnico. L’infinito è “un concetto ingovernabile”, dice. E così si passa direttamente dalla religione all’IA. “L’arte costruisce i margini attorno ai quali ciò che non è bordo può essere pensato come un bordo. E’ una forma di possibilità di un’architettura. E da questa architettura è nata un’estensione sorprendente: l’intelligenza artificiale”. Pistoletto chiama questo il nuovo materiale della pittura specchiante. Non è più solo una superficie visibile; inizia a pensare: “Io sono il robot, il robot sono io, perché il robot lo facciamo a nostra somiglianza” dice per citare uno dei suoi disegni. L’IA non è un riflesso del sé, ma una proiezione, l’umanità che lascia il corpo e lascia il suo segno all’esterno, come nello specchio. Ciò che sorprende Pistoletto – e lo esprime con invidiabile meraviglia – è il ritmo del pensiero digitale, che prevede la domanda, che sembra intuire, non calcolare. Qui l’arte, come sempre, è invitata a metabolizzare prima di giudicare.

E poi, ancora, parlando di linguaggi universali, lo sport. L’argomento un po’ più astratto che Pistoletto riporta per considerare la prospettiva della pace preventiva. “Lo sport ha la legge che alla società manca: competere senza ferire, vincere senza annientare. Una palestra di convivenza dove il potere è valutato senza perdita”. L’arte, in questa visione, è la sorella dello sport, perché fornisce un campo di gioco comune, un territorio neutrale dove ci si può incontrare senza annullarsi. A vicenda. Alla fine della discussione, quando l’artista chiama l’opera dannata che lo accusava di “svuotare l’arte a favore di Dio”, non c’è un passo di risentimento, solo curiosità. “C’è sempre una dualità”, ripete, “senza la dualità non avviene mai, mai, mai niente”, come se fosse un dato di fatto e non solo un’opinione. Forse è questo che è così sconcertante, la convinzione che ogni tensione produca un campo e ogni opposizione sia sempre possibile. Se il conflitto non diventa distruzione, è un motore. Alla fine Pistoletto sembra lasciare un’impressione di leggerezza vigile. La sua non è una visione che ci farebbe chiudere il cerchio ma una visione che circola intorno ad esso.

Ha trasformato lo specchio in uno strumento di conoscenza, l’arte in una pratica di responsabilità, la spiritualità in un esercizio di immaginazione civica. E la sua risonanza non è nella scala dei temi, è nella loro continuità. Tutto ritorna, tutto si riconnette. Come nel Terzo Paradiso, il cui centro è un passaggio, non un punto fisso.

 

 

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