Ansa

Coro polifonico

Roma canta di sé stessa e il primato nella musica italiana è ancora suo

Stefano Pistolini

Il tramonto del business industriale della musica e il ritorno alla matrice spettacolare hanno attribuito alla Capitale il ruolo di metropoli tra le città. Da Venditti a Baglioni passando per Max Gazzé ed Elodie. Queste figure vecchie e nuove, insieme, danno vita a un coro polifonico

Parlando di musica contemporanea, Roma è una città-stato. Ha una sua fisionomia e un senso generale che somiglia ma non ricalca quello nazionale, mantenendo caratteri locali sufficienti a definire se non uno stile complessivo, una discreta casistica di ricorrenze. All’indomani del disfacimento delle case discografiche, ha poi assunto una dominanza tranquilla, assodata: se la Lady Gaga di turno la tappa italiana la fa a Milano, intercettando scintille di affaticato glamour meneghino, quando si tratta di artisti nostrani il redivivo Circo Massimo ha lo status che non teme paragoni, perfino più psicologicamente imponente degli stati calcistici.

 

Insomma, il tramonto del business industriale della musica e il ritorno alla matrice spettacolare hanno attribuito a Roma il ruolo di metropoli tra le città, luogo dov’è naturale che tutto stia insieme. E la composizione del grande senato musicale romano è composita, eppure con una percentuale d’omogeneità che va oltre quell’accento sdrucciolo divenuto la prima lingua del nostro showbiz. Già, perché proprio la parola è il primario fattore unificante della nazione invisibile costretta dal Grande Raccordo Anulare. La musica di Roma parla, tanto e sempre, e si direbbe anche bene se si fa l’identikit dei senatori seduti su quegli scranni. Ci sono quelli a vita, che a lungo hanno governato, benignamente, dando spessore alla lingua, rispettandola e modernizzandola giusto il minimo necessario – De Gregori e Venditti, Battisti, Ramazzotti e Baglioni, ciascuno con una sfumatura nelle espressioni di ciascuno che – volendo – permettono di zoomare dalla mappa della città a quella dei quartieri, cogliendo gli scarti sia di approccio che di descrizione, tra Monteverde e il Prenestino, il quartiere Trieste e Cinecittà, o meglio, le case popolari del Lamaro di Eros, mentre Lucio era venuto giù dalle montagne reatine, s’intuiva dai golfoni fatti a maglia che sfoggiava d’inverno. Dalla Montagnola arrivava invece il giovane Facchini, nel mentre di trasformarsi in Renato Zero, imponendo tra i ruderi della civiltà imperiale una trasgressione abbastanza sfrontata da dare una spallata a tanti preconcetti.

 

Tutti costoro erano dei classici quando il Novecento si spegneva e il ruolo che ormai giocavano era quello dei buoni maestri, coloro che avevano segnato indelebilmente il modo di fare musica a Roma: il laboratorio musicale degli studi Rca di via Tiburtina stava già chiudendo i battenti, non potendo riciclarsi alla Abbey Road, eppure la lezione era impartita: la generazione successiva, Daniele Silvestri, Max Gazzé, Niccolò Fabi e i fratelli Zampaglione non potevano esimersi dal bagnarsi in quell’acqua benedetta, magari iniettandoci qualcosa di forestiero, proveniente più dall’Oltremanica che dall’altra parte dell’Atlantico. E certi argomenti smettevano di assortire il loro sillabario, al volgere del millennio: l’amore di lei che se ne va, la malinconia che ti rincorre, la città-incantesimo, il bisogno di calore, la voglia di lasciar perdere, quelle giornate in cui l’aria, il clima, il flusso sembrano perfetti, nemmeno fosse un miracolo. Per una Gabriella. Ferri, che abdica dalla responsabilità d’essere la voce verace delle ragazze romane, arriva una Giorgia a prendere il suo posto e intanto la gioventù ha cambiato tinte, abitudini e vocazioni: spuntano Niccolò Contessa e Calcutta e il 21esimo secolo è già la cornice accertata all’insegna della rivoluzione digitale. Le ragazze della musica si moltiplicano e sono brave come Elodie e Noemi, o arrivano in città per sfuggire al soffocamento della provincia, come racconta Ariete nelle sue ballate. C’è tempo per un’altra schiera di ragazzi con la chitarra e dai nomi strani, Gazzelle, Paradiso e Fulminacci, finché quello chiamato Ultimo diventa il più popolare di tutti, riscatta la reputazione di San Basilio, esaurisce a raffica l’Olimpico, viene ascoltato da tutti i ragazzi italiani perché parla la lingua condivisa. E' l’eroe inatteso, venuto fuori per caso, eppure così perfetto, che nemmeno l’avessero preparato in provetta.

 

Perché a Roma intanto la famosa “parola” ha preso anche altre strade, quelle del rap e della trap, e la lista di nomi è sterminata, citiamo solo le posse – il Rome Zoo, il Truceklan, la Dpg, la 126 – ma la destinazione è inevitabilmente solo locale, gli altri osservano a distanza, per capire i salmi di Metal Carter, Danno o Noyz Narcos, devi essere cresciuto qui e aver intravisto le stesse disavventure. Poi adesso comanda la pista di lancio dei social, della tv e dei talent, tabernacoli da cui spuntano figure come Achille Lauro o i Maneskin, figli di un post-modernismo in ritardo sull’altrove. E tutte queste figure vecchie e nuove, insieme, danno vita a un coro polifonico, in cui il dato di comunità di vicinanza, è percepibile. Non è un caso se sono giusto cinquant’anni, mezzo secolo, da quando Antonello cantava di Piazzale degli Eroi, dicendo che là non ci voleva più passare perché c’erano “troppe scritte nere sui muri”. Giusto pochi giorni fa Tutti Fenomeni, il complicato poeta pop, ha intitolato alla stessa piazza il suo ultimo singolo, rievocando i “saluti romani a Piazzale degli Eroi”. Tutto cambia, niente cambia. Roma si piace e si parla addosso. Ma se nella musica vuoi contare qualcosa, devi fare proprio così.