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Con mano prodigiosa Leonetta Cecchi Pieraccini ha raccontato il Novecento italiano
Dai taccuini della la pittrice-scrittrice che trasformò la vita culturale italiana in quadri di parole torna attraverso agendine, ritratti e memorie familiari, un secolo vivo e sorprendente. Il ritratto unico di un’artista che seppe osservare il suo tempo con grazia, ironia e precisione
Dipingeva e scriveva con la stessa mano felice. Per Leonetta Cecchi Pieraccini penna e pennello erano due facce del medesimo talento. Scriveva come se dipingesse dal vero, ma sempre da un angolo visuale tutto suo, particolarissimo. Nell’estate del 1930 stava lasciando l’Italia con il marito Emilio Cecchi, erano diretti negli Stati Uniti, dove lui avrebbe tenuto un ciclo di lezioni all’Università di Berkeley. A bordo del transatlantico Conte Grande, lei si mise ad annotare come faceva sempre – il minimalismo è tutto suo – “ricordi di fatti e fatterelli, per me importanti, o semplicemente divertenti, oppure affettivi”.
Così eccoci alla sera prima della traversata, in una trattoria di Napoli con pochi commensali. “Alla nostra destra una coppia di coniugi grassoni, a sinistra tre vecchietti magrissimi. Molti gatti in giro. Silenzio assoluto. Anche i gatti sollecitano un bocconcino raspando con le zampette senza miagolare. I tre vecchietti che si riuniscono a tavola forse da mezzo secolo, non si scambiano una parola né arrivando, né separandosi, tanto meno mentre mangiano. (…) E’ un luogo di sogno. Sopraggiunge lo scultore Gatto. Vivace e intelligente ma grottesco. Si esprime più con i gesti che con le parole. Si vorrebbe che anche lui non parlasse ed entrasse come un mimo a prender parte a questa strana rappresentazione di un quadro vivente: la trattoria di via dei Ventaglieri”.
Dunque siamo in un quadro. Durante il viaggio vedremo italo-americani che hanno fatto i soldi abbigliati come “selvaggi in tuba”, vedremo “il mare smagliante virgolato di bianco” fino a New York “grandiosa e magica”, “dove la brutalità dello spropositato movimento cittadino ci inghiotte in una nebbia grigia”. Qui Mario Soldati, in America con una borsa di studio, fa da chaperon. Sotto il ponte di Brooklyn appaiono “barconi ancorati con la casetta a bordo e le persiane verdi, con un paio di mutande di donna tese ad asciugar fuori dalla finestrina. Le mutande della moglie del capitano”. Lei dipinge scrivendo e lo fa in modo divertente, con una lingua toscana che abita dalle parti di Palazzeschi e di Collodi. Un litigio è una leticata, i tappi sono turaccioli, un tessuto lacerato è un insieme di sbrendoli.
Leonetta Pieraccini era una ragazza di Poggibonsi nata nel 1882, figlia di un medico socialista e sorellastra di Gaetano, primo sindaco di Firenze dopo la Liberazione. Lì aveva studiato all’Accademia di Belle Arti dove fu allieva di Giovanni Fattori, il più famoso dei Macchiaioli. Tra le allieve di Fattori, almeno due si rivelarono assai talentuose e furono tra loro legate da vera amicizia: Leonetta Pieraccini e Fillide Giorgi. A casa di Fillide, Leonetta conobbe un ragazzo brillante e spiantato, figlio di una sarta e di un ferramenta, si chiamava Emilio Cecchi: da autodidatta sarebbe diventato uno dei maggiori critici della prima metà del Novecento e il principe delle Terze pagine. Lo sposò nel 1911 e insieme dettero inizio a una ramificata genealogia di intellettuali e di artisti.
Quando Emilio e Leonetta si trasferirono a Roma, dove lui cominciò collaborando a La Tribuna e a La Ronda, nacquero, nel 1913, Giuditta (o Ditta), futura studiosa di letteratura inglese e traduttrice, e l’anno dopo Giovanna (o Suso), la sceneggiatrice di tanti capolavori del cinema italiano firmati con registi come Visconti, Blasetti, Castellani, De Sica, Zeffirelli, Rosi e molti altri. Il figlio più piccolo, Dario, divenuto pittore e scenografo, nacque invece a Firenze nel 1917. Ditta sposò il pittore Amerigo Bartoli Natinguerra; unendosi al critico e musicologo Lele d’Amico, figlio di Silvio, fondatore dell’Accademia nazionale d’arte drammatica, Suso aggiunse un altro creativo e frondoso ramo all’albero di Leonetta. Ma sulla discendenza, che i lettori troveranno in tutti i suoi dettagli tra gli apparati di “Corso d’Italia 11. Agendine 1930-1945” di Leonetta Cecchi Pieraccini, ci fermiamo qui. Per non perderci nel labirinto genealogico e concentrarci sulla mano doppiamente felice della ragazza di Poggibonsi. Sellerio ha infatti appena pubblicato il secondo volume dei diari curato, come il precedente uscito nel 2015, da Isabella d’Amico, bisnipote di Leonetta, che li ha annotati con amorevole perizia fornendo a chi legge un’indispensabile mappa di fatti e personaggi del tempo.
Leonetta Cecchi Pieraccini è stata una famosa ritrattista (tra gli altri ritrasse Sibilla Aleramo, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Roberto Longhi). Un’artista che nel 1921 aveva già fatto una personale, che negli anni Venti esponeva alla Quadriennale e alla Biennale e che nel 1927 fu inclusa da Margherita Sarfatti nella selezione della Società amatori e cultori di belle arti al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Nel decennio successivo partecipò anche a importanti collettive internazionali e nel 1936 fece una personale a San Paolo del Brasile. Intanto, accanto al lavoro di pennello, la penna appuntava note di vita e di costume culturale svelte e pungenti, scritte in stile epigrammatico e con uno spiccato senso dell’umorismo. Si tratta di appunti veloci presi su agendine che vanno dal 1911 al 1971. Ora i quaderni originali sono conservati a Firenze, al Gabinetto Vieusseux, ma nel tempo ne sono state pubblicate selezioni. Leo Longanesi che, come scrive Leonetta, “stava sempre con le orecchie tese a raccoglier broccoli” e che l’aveva invitata a collaborare al suo Omnibus nel 1937, la convinse a trarne una scelta, che uscì nel 1952 con il titolo “Visti da vicino”. Vi compaiono alcuni dei personaggi che Leonetta aveva frequentato con il marito (poeti come Cesare Pascarella, Trilussa, Dino Campana o pittori come Giovanni Fattori e Armando Spadini). Con le sue note di costume culturale, Pieraccini fu anche a Oggi e al Mondo e, tra il 1960 e il 1964, uscirono altri estratti: “Vecchie agendine 1911-1929” e “Agendina di guerra”. Adesso abbiamo gli integrali pubblicati da Sellerio, che sono una miniera di informazioni – il secondo volume veleggia sulle mille pagine – sulla vita culturale italiana degli anni del fascismo trionfante e poi della guerra.
Ecco allora un sapido resoconto dalla Quadriennale 1931. Il 3 gennaio, al Vernissage, “Mussolini ostentava buon umore” e “ha evitato di salutare la Sarfatti la quale correva dietro affannosamente al gruppo delle autorità ch’egli capitanava”. La signora non era lì per caso, faceva parte della commissione selezionatrice degli artisti e fino a poco tempo prima era stata la più importante tra le amanti del duce, che ora fingeva di non vederla. In chiusura della stessa manifestazione, il 12 agosto, Mussolini riappare ridente e “si ferma a gambe larghe nel centro del salone e ripete il solito gesto di sette mesi fa: invita cioè gli intervenuti, tenuti indietro dai poliziotti in borghese, ad accostarsi e farglisi intorno confidenzialmente: e quando tutti accorrono egli li ferma quasi avessero abusato della sua concessione. E lui ride del giochetto, il seguito ride, il pubblico ride”. Leonetta, che nel 1935 di Mussolini farà un ritratto in borghese, con giacca e cravatta e per nulla ducesco, prosegue raccontando la cena successiva a casa sua; con il pittore Amerigo Bartoli che punzecchia il povero Cardarelli, che al duce ha appena chiesto un sussidio. Gli artisti e i letterati sono sovente scarsi di denaro e bisognosi di apprezzamento. Siamo negli anni di massimo consenso al regime e Mussolini, in mezzo a loro, pare il gatto coi topi, li vezzeggia minacciando di sfoderare gli artigli.
Quando arrivarono le leggi razziali, nel 1938, all’inizio pareva nulla ma poi nel mondo culturale fu uno sconquasso. “Moravia diceva, con la sua violenta energia”, scrive Leonetta nel giorno di Natale di quell’anno, “del disagio morale sorto in lui, come in altri che ne sono colpiti in conseguenza dei provvedimenti antiebraici. Egli è salvo perché essendo di razza mista, è considerato ariano”, che non vuol propriamente dire “fatto d’aria” come in una storiella allora in circolazione. Anche Umberto Saba ha una doppia origine, “ma egli per solidarietà con la madre abbandonò fin da giovanetto la casa paterna e ha sempre convissuto con la madre e si è iscritto all’associazione ebraica e ha sposato un’ebrea e ha una figlia ebrea. Ora si trova rinnegato come poeta italiano mentre egli era ambizioso di essere forse il primo. E’ avvilito e scorato fino a rasentare il pensiero del suicidio”.
Il salotto al numero 11 di Corso d’Italia era molto ben frequentato, vi si incontravano giovani musicisti come era allora Nino Rota, il compositore geniale – angelico e sbadatissimo individuo – che trent’anni dopo, in cima a una carriera di musiche scritte per i film di Visconti e Fellini, avrà l’Oscar per la colonna sonora del “Padrino” di Francis Ford Coppola. C’erano spesso il critico Roberto Longhi e sua moglie Anna Banti, Leo Longanesi e Mino Maccari, Gianna Manzini e Enrico Falqui, Alberto Moravia e Elsa Morante... Queste agendine sono così affollate che è difficile scegliere il cammeo giusto. Irresistibile Ungaretti sulla spiaggia di Ostia il 4 luglio del 1931: “Imbronciato, polemico, col bastone attaccato al braccio, le scarpe nere, il cappello di feltro calcato sulla testa arruffata, un vestito di lana color caffè che fa macchia grottesca fra i nudi e i colori sgargianti degli ombrelloni e delle tuniche femminili”.
Oppure l’uomo “un po’ zoppicante”, che “vien giù rasente il muro” per le strade di Napoli una sera nel novembre del 1937, “tenendo un braccio infilato in quello di una bimbetta”. Appare abbigliato in modo incongruo, e mentre Leonetta pensa tra sé “che tipi questi napoletani”, si accorge che è Benedetto Croce con la figlia più piccola. Il filosofo, riconosciuta guida morale, si mette allora a far loro da cicerone e mostra, strada facendo, la casa di Degas e poi la finestra della cella che fu prigione di Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno e Campanella.
Qui invece siamo a un tè di signore alla Casina Valadier, a Roma, nell’aprile del 1939 con Maria Bellonci e altre cinque intellettuali. Le due “più preziose”, annota Pieraccini, sono Lucia Lopresti (in arte Anna Banti) e Gianna Manzini. “Molto eleganti tutte e due e raffinate: la prima a suon di biglietti da mille, l’altra con accorti aggiornamenti provenienti dalla sua professione di cronista della moda. Maria Bellonci con il suo solito tipo di abito attillatissimo rifinito con l’ingenuo collaretto di piquet bianco. Una mantellina stretta alle spalle e un cercine in testa, guarnito di bende ricadenti sulle spalle, le dava un po’ l’aria di istitutrice di bambini. Un’avvenente istitutrice”. Ecco infine la rivale, Grazia Deledda, che con suo marito Emilio Cecchi ebbe un breve legame sentimentale. L’appunto è del 1941: “Saggio di Em. sulla Deledda. Ho avvertito il passo in cui il futuro biografo e studioso potrà innestare l’osservazione che l’ultimo periodo dell’arte della scrittrice porta l’impronta della conoscenza di Em. e dell’appassionata relazione avuta con lui”.
Poi arriva la guerra e brucia tutto “con le sue terribili necessità”, scrive il 28 dicembre del 1941, “distrugge l’ozio e l’oblio, abolisce la raffinatezza del viver civile e riconduce l’uomo alle necessità della vita elementare. Oggi, in conversazione, non si parla più di ninnoli, di esposizioni, di viaggi, di idealità e fantasie. Si parla di burro, di olio e di formaggio”. Eppure talvolta succede anche di festeggiare spingendosi sopra le righe: all’inizio del 1945 “si fa un gran chiacchierare della festa di capo d’anno in casa Arduini, come di una notte di sfrenata crapula”. Arduini, che era un antiquario romano, s’era vestito da sposa; c’erano “la Fini seminuda, Mazzacurati nudo sotto la pelliccia; Elsa Morante col seno scoperto ecc.”
In cerca di flash e micro-ritratti, c’è solo da sbizzarrirsi. Quanto agli autoritratti, Leonetta ne dipinse diversi e in varie stagioni della vita; è molto interessante quello scelto per la copertina del volumone. E’ la pittrice nell’atto di dipingere. Certo, è assurdo cercare nessi con il tormentoso vigore di quello che si fece Artemisia Gentileschi tre secoli prima, impugnando la tavolozza nella sua famosa Allegoria della Pittura. Questo “Studio dell’artista 1929” è tutt’altro, siamo in un interno borghese, la signora col pennello davanti alla tela porta i tacchi alti, indossa il camice sopra un abito di seta celeste, un ragazzino – forse suo figlio – la guarda lavorare. Non c’è tormento né estasi, dipingere è un gesto ordinario e fa parte di un vissuto domestico che pare avvolto in un’atmosfera sognante. Un altro quadro vivente muto, come la trattoria dei Ventaglieri che un anno dopo Leonetta fisserà sul suo diario durante la traversata per New York.
I Cecchi Pieraccini seppero far fiorire l’intensità della loro sensibilità intellettuale e artistica dentro un involucro di operosa vita di famiglia. Ma non convenzionali rimasero. Masolino d’Amico, l’anglista e critico teatrale figlio di Suso Cecchi, negli anni Quaranta era un loro nipotino impunito e l’aveva percepito con chiarezza. Lo scrive nell’introduzione al primo volume delle Agendine, quando ricorda che saltava sfrenato con le sorelle sul divano di casa dei nonni al numero 11 di Corso d’Italia. Allora Leonetta lo rimproverava: “Scommetto che queste cose dai nonni d’Amico non le fate!”. E lui, che aveva circa sei anni: “Che c’entra, quelli sono nonni distinti!”.