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Denudate Dante. Il ritorno alla parola pura, che rifonda l'esistenza

Jacopo Parodi

Il mistero di un inedito ritrovato fra gli scritti del filologo Gianfranco Contini risiede nel tentativo di conciliare mondo e letteratura, pensiero e forma, genealogie culturali, modelli di conoscenza e di vita, e, per converso, la forza “algebrica” delle lettere che si dispongono sulla pagina, e ancora prima nella mente

Gianfranco Contini è morto il primo febbraio 1990. Era nato nel 1912: ha vissuto e abitato un tempo che aveva, via via, contribuito a disegnare, a plasmare, nella letteratura, nella critica, nella cultura. Aveva sognato, in mezzo alla guerra mondiale, un tempo nuovo, fondato su una condivisione della lettura dei grandi capolavori, che avrebbero dovuto re-inventare un mondo distrutto. In questa utopia chi sapeva far parlare, o forzare, le parole remote dei poeti (quelle sono sempre, comunque, remote e vicinissime al tempo stesso), avrebbe dovuto portarle, condurle a chi non aveva ancora trovato la propria voce, a chi era rimasto fuori dalla storia della letteratura, e in genere dalla Storia. Letteratura, quindi, come forma di civiltà, come veicolo per ripensare in modo più equo la vita collettiva. Contini chiamava questo sogno, per lui concretissimo, “civilisation d’amour”. Sarebbe stato sempre fedele a questa sua proposta: la sua opera di lettore, ossia di interprete, di poesia e di prosa, non è che un infinito “rapport d’amour” verso le opere prese in esame e verso gli uomini, verso quell’umanità che cercava di indurre all’ascolto. 

 

Ma torniamo al 1990. I giorni precedenti la sua fine, cioè quell’estremo gennaio a Domodossola (suo luogo natale dove era tornato a vivere negli ultimi anni), Contini li aveva trascorsi in compagnia del suo autore più amato, Dante. Chi era Dante per lui? Non il monumentale fondatore della letteratura italiana, neppure il poeta insegnato a scuola o oggetto,  anzi “vittima”, dei tantissimi commenti che affollano le librerie di nonni, genitori, zii, cugini. Mentre si congedava dal mondo, Contini, filologo, critico militante, autore di capitali saggi su tutto l’arco o la circonferenza della letteratura italiana (da Dante a Gadda, da Ariosto a Montale), si era ritrovato a meditare su questa folla di note inutili che impedivano al lettore di gustare realmente il testo dantesco: “Eppure l’invasione della prosa esegetica, quasi inevitabilmente di grado zero, nella pagina dove il ‘poema sacro’ tollera di esser ridotto a minuscole trance […] costituisce un motivo di perplessità, non dirò proprio di rimorso, al tramonto di chi a operazioni siffatte ha dedicato una larga parte della sua or declinante vita”. Questa citazione viene da un saggio molto breve, e però bellissimo, che Contini ha apposto nel 1988 alla prima cantica della Commedia, dunque all’Inferno, commentata in modo singolare non da uno studioso vero e proprio, ma da uno scrittore, vero scrittore, che aveva chiesto al filologo sommo di supervisionare la propria fatica: Vittorio Sermonti. Gli ultimi giorni della sua vita Contini li ha passati a rivedere i canti dal XXII al XXVII del Purgatorio che lo scrittore gli aveva consegnato. 

 

La Commedia di Sermonti è un testo pulito, senza note, ma preceduto da un cappello introduttivo formidabile, in cui si offrono tutte le informazioni necessarie. Una introduzione, allora, a ogni canto: “Il discorso si trova dunque ormai a vertere sulla natura di libro che possa assumere la Commedia. Il testo puro è un ideale che oserei dire giansenistico e comunque mal proponibile a caso vergine: è perlomeno un sussidio alla mente che erra” (scrive sempre Contini a margine dell’Inferno). 

 

Ecco, fermiamoci qui. Su questa espressione splendida, geniale: “Un sussidio alla mente che erra”. Che cosa vuol dire? Semplice: che a contare è la melodia che scaturisce dalle terzine di Dante, quel suono che rapisce, quella musica che non rimanda a nessuna realtà esistente, ma offre un senso a quella che gli occhi del lettore credono di vedere. Una sinfonia che ha dentro di sé l’universo intero, che sa aderire a quel mondo interiore che spesso e volentieri non si riesce a esprimere. Tuttavia, si può rimanere travolti da tutto questo: facilissimo fermarsi alle prime terzine, perché banalmente, anche facendo forza su sé stessi, non si capisce quello che il poeta dice. E allora comincia il disturbante fastidio di chi non si arrende al flusso delle parole, ma vuole sapere quello che intendono. Un complesso attorcigliatissimo di fatti, storie, peripezie, date, rapporti di potere, nozioni, di cose che spesso solo Dante poteva sapere. Di conseguenza, un aiuto al lettore, un “sussidio” alla confusione che gli comincia ad annidarsi nella testa, bisogna pur darlo, ma senza tentare di fare l’impossibile. Senza ricadere nel problema contrario: nel respingimento, nella noia creata da una spiegazione che pretende di parafrasare tutto. La poesia è il suo stesso mistero. 

 

Contini sa bene che la critica è un dono, un servizio per gli altri, allo stesso modo della letteratura propriamente detta. Occorre fascino, seduzione. E che Contini sia stato anche un grande scrittore, nel senso di autentico narratore e affabulatore, lo dimostra – se ce ne fosse il bisogno – anche un testo inedito, di prossima pubblicazione – Dante Machiavelli Vico. Una lezione perduta, a cura di Jacopo Parodi e Anna Terroni, per i tipi di Aragno – che qui si cerca di presentare sommariamente. Si tratta di un saggio, pensato come una conferenza, del 1968, ma non rimangono tracce che provino che questa si sia davvero svolta: “Solo per le insistenze dell’amica Anna Banti m’induco a stampare questo canovaccio destinato a redazioni orali; e Le chiedo il permesso di dedicarglielo”. Questa è la dedica che Contini appone nel 1965, quindi tre anni prima del testo in questione, a quello che probabilmente è il più importante saggio dantesco del filologo, Un’interpretazione di Dante, pubblicato in prima battuta sulla rivista “Paragone-Letteratura”, diretta da Anna Banti, la grande scrittrice e moglie di Roberto Longhi, il massimo storico dell’arte italiano del Novecento, considerato da Contini un maestro, nonché il suo più caro amico. Come dichiara la dedica, questo imponente lavoro era nato come “canovaccio destinato a redazioni orali”: il 1965 è l’anno del settimo centenario della nascita di Dante e il filologo dal 1956 era presidente della Società dantesca italiana, dunque coinvolto al massimo grado nei festeggiamenti e nel programma di divulgazione dell’opera del poeta. 

 

Anche il nostro inedito dialoga a distanza con il tour de force di eventi e di conferenze che Contini aveva tenuto nell’anno fatidico 1965. E c’entra di nuovo la dimensione orale: “Ho già avuto il piacere e l’onore di parlare altra volta in questa sala: fu tre anni fa, ricorrendo il settimo centenario della nascita di Dante; una nascita di cui si conosce il millesimo, ma, com’è arcinoto, non il giorno; e, se non fosse per un accenno fattone nel “sacrato poema”, non ne sapremmo, per via documentaria, nemmeno il mese, o per meglio dire le costellazioni zodiacali”. Siamo probabilmente  – ma ovviamente amplissimo è il margine di errore – nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio a Firenze (non rimangono, come si diceva, inviti, programmi ecc. di questa lezione), dove si erano tenute le celebrazioni del centenario ricordato. Ma queste costellazioni zodiacali invocate da Contini – Dante era dei Gemelli: “O glorïose stelle, o lume pregno di gran virtù, / dal quale io riconosco / tutto, qual che sia, il mio ingegno” (Paradiso XXII) – cominciano a intrecciarsi, ad ampliarsi, ad andare avanti: “Debbo al rito laico invalso nella società ottocentesca a commemorazione degli eventi civili, quello appunto dei centenarî, […] l’occasione, per me assai fausta, di ritrovarmi qui per invitare a qualche riflessione mentre si chiude il terzo centenario della nascita di G. B. Vico e sta per aprirsi il quinto della nascita (sono tutte celebrazioni natalizie) di Niccolò Machiavelli”. 

 

Gli interrogativi si affollano. Che razza di trattazione è? Siamo partiti dalla fine: cioè da un Contini che auspica una Commedia come uno spartito di note, come un’orchestra che la esegue dentro la mente di quell’“Io”, individuale e universale, per cui il poema è stato scritto. La forma – i suoni che si ripetono e inseguono, sfumandosi nel dettato complessivo – del poema è il suo vero contenuto, l’oralità, fisica o interiore, la sua applicazione originaria. E Un’interpretazione di Dante del ‘65 è infatti la lettura del poema in questa direzione: la teorizzazione della melodia delle parole come creatrice di significato, come portatrice di una chiave per rivelare a ciascuno qualcosa del proprio personale mistero. Tocca l’indicibile: del resto importa il giusto. Eppure, qui il discorso sembra diverso, storico-culturale, non formale. Il problema dell’“italianità”, dell’identità nazionale, attraverso un’immagine quanto mai suggestiva. Il fiorentino e rinascimentale Niccolò Machiavelli, il celebre autore del Principe, e il filosofo napoletano settecentesco Giambattista Vico, maestro di una “storia della filosofia narrata filosoficamente”, di fronte a Dante: “Sono due italiani tipici. Non pretendo con questo che Dante non sia intriso di materia italiana, e anzi fiorentina; ma la sua attualità eterna ed ecumenica fa sì che possa essere sentito, quando accade, contemporaneo” ovunque.

 

“Ciò non si ripeta per i tanto più vicini Machiavelli e Vico, ascendenti specifici di un certo uomo culturale italiano”. Andiamo di volata in fondo, al finale di questa straniante prolusione: “In un caso come nell’altro si deve finalmente invocare una categoria che solitamente si adduce per diminuzione e che qui mira a tutt’altro fine, quella di “provincialità”. Machiavelli-Vico sono abbarbicati a una fedeltà e autenticità locale che è dialetticamente legata alla loro udienza molto più che italiana. Non solo italiani tipici, ma ostentatamente fiorentino l’uno, napoletano l’altro, perseguono in modi domestici l’ecumenicità dei loro nuovi assunti”. Come raccontare, o almeno far percepire, il ragionamento vertiginoso che si snoda in queste pagine? Contini filosofo, storico delle idee, teorico dell’essere italiani, contrapposto all’assertore ferreo della forma, dello stile letterario? Eppure, a un certo punto si legge: “Per chi parla, convinto formalizzatore, la scommessa è il duplice salvataggio della formalizzazione algebrica e della forma poetica dell’enunciato”. Roba da perderci la testa. Sottigliezze continiane, di un signore coltissimo, celebralissimo e oggi fuori tempo massimo? 

 

Il segreto di questo inedito, ritrovato tra le carte del grande filologo, risiede nel tentativo di conciliare mondo e letteratura, pensiero e forma, genealogie culturali, modelli di conoscenza e di vita, e, per converso, la forza “algebrica” delle lettere che si dispongono, come una formula, sulla pagina, e ancora prima nella mente. E che costituiscono, in quel loro ordine magico, la creazione dell’universo. Ripetibile all’infinito. Dunque, è il tassello di un percorso che porta sì alla supremazia di qualcosa di molto simile al “testo puro”, ma che sottintende una conoscenza dei rapporti parola/realtà profondissima. La parola rifonda l’esistenza, proprio perché in primo luogo il pensiero è parola. Storia della letteratura e storia delle “ideologie” si fondono: Contini è uno straordinario alchimista. Ma, tornando al tema specifico, in che cosa consiste l’italianità, diversa, di Dante, Machiavelli, Vico? Intanto, sono autori di un unico libro.

 

Cioè sono autori di una lezione, che, cercando parole nuove, strutture differenti, hanno seguitato a “riscrivere e a ripubblicare” (certo il caso di Dante è più complesso, entra in gioco il vortice della sua sperimentalità, ma sappiamo già che lui, comunque, gioca su un altro piano). In sintesi: un pragmatismo, venato di idealismo, che si rivela essere un senso totale della realtà, la capacità, per l’appunto, di abbattere le pareti tra natura e uomo, tra fisica e metafisica, antropologia e visionarietà. Detto altrimenti, il problema di stare al mondo come è e di immaginarlo costantemente come dovrebbe essere: “Sono […] temi attivi, non solo modi di pensare il mondo”. Ovviamente, il centro del problema è la costruzione dello stato, il modo di costruirlo e di portarlo avanti, l’ambigua e annosa relazione tra cultura e potere. L’attenzione allo stile diviene qui lo strumento per misurare il cammino sotterraneo delle idee (Contini immagina un flusso continuo che, fatto apparire sotto gli sguardi degli ascoltatori o lettori, ferma e focalizza abilmente): “Non vorrei chiudere questa rapida meditazione in pubblico senza riaddurre come testo il gran nome di Dante”. 

 

La memoria formale di Machiavelli e Vico è piena di “intarsî danteschi”, ma entrambi condividono una avversione – seppur con sfumature non sovrapponibili – per una lingua artificiale, unitaria, come avvertono essere il volgare inseguito da Dante nel suo trattato linguistico, il De Vulgari Eloquentia: “Nel fatto il Machiavelli […] difende la sua propria stilistica intensamente vernacolare: […] Tutt’altro atteggiamento ha ovviamente il non toscano Vico, a cui non sono estranei i napoletanismi […] e che tuttavia nella solennità scabra, in direzione per lo più opposta, consegue la medesima distanza dalla lingua destinata a trionfare”. Particolarismi, localismi di due arci-italiani, provinciali ed ecumenici (figli di un Dante globalissimo che in loro si scinde, si frammenta e si specifica). Insomma, tengono in piedi una tensione al cambiamento della civiltà, in una direzione votata al bene comune, e paradossalmente anche un amore radicale, campanilistico, per le parole che li hanno nutriti, siano letterarie o dialettali. Che sia questo il modo per rendere più umano, vicino a noi, quotidiano, anche vernacolare, l’insegnamento di chi, come Dante, in un verso, anzi in un suono, racchiude ogni possibile via teologica, politica, sociale, esistenziale, percorribile? Non resta che ripetere: “Non solo italiani tipici, ma ostentatamente fiorentino l’uno, napoletano l’altro, perseguono in modi domestici l’ecumenicità dei loro nuovi assunti”.