Bersagli di Wagner erano due ebrei che dominavano la musica tedesca: Felix Mendelssohn e Jacob Meyerbeer (ritratto di F. Mendelssohn, di Wilhelm Hensel)
Razzisti d'opera
Ovunque gli ebrei portarono progresso, l'odio si infiammò. Dalla musica alle ferrovie
Wagner manifestò avversione per la musica che era diventata un “distributore di contanti” nelle mani di “imbonitori giudei dell’orecchio”. E anche quando gli ebrei iniziarono a praticare la medicina e la giurisprudenza, a lavorare in banche e industrie, il vecchio sospetto riemerse
Un ebreo lo riconosci sempre per i suoni che emette: “Un tono nasale, gracchiante, sibilante, ronzante, totalmente disumano”. Così scriveva Richard Wagner nel suo saggio Il giudaismo nella musica, pubblicato nel 1850 con lo pseudonimo di K. Freigedank (Libero Pensatore). I suoi bersagli erano due ebrei che dominavano la musica tedesca: il convertito Felix Mendelssohn e l’ebreo dichiarato Jacob Meyerbeer. Non frontale la polemica col primo (scomparso nel 1847), di cui non condivideva i gusti musicali conservatori. Poco importava che un virtuoso come l’ebreo Ferdinand David, il primo a eseguire nel 1845 il Concerto per violino in mi minore di Mendelssohn, lo avesse fatto suonando un Guarnieri. Per Wagner, la sua razza sarebbe stata sempre sorda alle profondità del dramma. Assai più aspra la polemica col secondo, reo di aver “giudaizzato” la musica, ovvero di averla degradata a volgare merce di largo consumo. In effetti, intorno alla metà dell’Ottocento i concerti non erano più, come erano stati per secoli, appannaggio esclusivo delle corti principesche e delle curie vescovili. Potevano diventare spettacoli lucrosi, e Meyerbeer fu tra i primi a intuirlo. Ora al centro delle città si costruivano spaziose sale per un pubblico pagante, a cui era concesso di assistere a esecuzioni musicali, un tempo riservate esclusivamente a nobili e ecclesiastici.
Pur avendo tentato in un primo momento di emulare Meyerbeer, Wagner cominciò a manifestare una violenta avversione per ciò che la musica era diventata, ossia un “distributore di contanti”. Ormai nelle mani di imbonitori giudei dell’orecchio, essa non offriva niente di più che un divertimento ingannevole, una distrazione dalla noia: “[Meyerbeer], incapace di produrre vera arte drammatica, compone opere per Parigi e le manda in giro per il mondo, il mezzo più sicuro oggigiorno di conquistare la notorietà, ma non come artista” (questa e le successive citazioni sono tratte dalla Storia degli ebrei di Simon Schama, vol.I., Mondadori, 2019).
Fintantoché aristocratici e vescovi avevano vigilato sull’“integrità” della musica, agli ebrei fu precluso ogni rapporto profondo con essa
Fintantoché aristocratici e vescovi avevano vigilato sull’integrità della musica, non c’era stato posto per gli ebrei. Così come non c’era stato posto per loro nelle gilde di artigiani, fabbri dello spirito germanico che Wagner avrebbe celebrato nei “Maestri cantori di Norimberga”. Per il compositore di Lipsia gli ebrei erano schiavi del denaro, un nemico mortale che avrebbe finito col distruggerli. Stranieri apolidi, agli ebrei era precluso un rapporto organico, profondo, con la lingua del popolo in cui si erano accampati. Non potevano avere altra musica che quella della sinagoga: “Chi non è stato preso da un senso di massima repulsione, di orrore misto ad assurdità, nell’ascoltare quei gorgoglii, gorgheggi e schiamazzi che nessuna caricatura intenzionale potrebbe rendere più ripugnanti?”. La nostra nazione sta diventando debole, ammoniva Wagner, vulnerabile all’invasione dei parassiti che si cibano del suo corpo corrotto, la cui carne è destinata a decomporsi in una carcassa pullulante di vermi. Quando formulava queste fosche premonizioni, il termine “antisemitismo” ancora non esisteva. Iniziò a diffondersi nel linguaggio politico europeo dopo la pubblicazione, nel 1879, di un libello diffamatorio del polemista tedesco Wilhelm Marr, in cui definiva gli ebrei – proprio come Wagner – “parassiti sociali, popolo di mercanti e usurai”.
La “biologizzazione” dell’odio antigiudaico non era del tutto nuova. Risaliva all’antica demonologia del profeta e predicatore iranico Mani (216-277 d.C.), il quale considerava gli ebrei veicoli di infezioni contagiose. Più tardi, nella Spagna del 1492, quando si pose il problema di impedire l’accesso dei giudei convertiti a uffici importanti, furono codificati gli statuti “de limpieza de sangre”, che censivano gli ebrei sulla base della discendenza o di caratteri fisici immodificabili. Ma la raffigurazione degli ebrei come un popolo “alieno” doveva molto anche alle morfologie zoologiche di quegli anni. Uno dei più influenti giudeofobi, Alphonse Toussenel, era un naturalista oltre che un giornalista politico. Nel 1847 pubblicò L’esprit des bêtes. Vénerie française et zoologie passionnelle, in cui ogni specie animale veniva abbinata alle razze umane. In quel libro, pietra miliare del socialismo antisemita, gli ebrei venivano descritti come animali saprofagi, simili a uno stormo di avvoltoi che divora carogne così come “l’usuraio divora la sua vittima e strappa l’ultimo centesimo dal borsellino di un operaio”.
Una volta lanciato l’antisemitismo zoologico, con il suo inevitabile corollario di sterminio dei parassiti, non c’era modo di arrestarlo. L’odio di Wagner se ne nutriva per trasmettere alle future generazioni l’idea dell’impurità fisiologica degli ebrei, della loro alterità genetica. Migranti cosmopoliti, potevano trovarsi a loro agio soltanto nei formicai dei ghetti, come i ratti nelle fogne. Nel 1843 era apparso un testo di Bruno Bauer, Die Judenfrage (La questione ebraica), in cui il giovane hegeliano illustrava due scenari alternativi: o l’emancipazione giuridica degli ebrei avrebbe messo fine alla loro diversità religiosa, oppure non restava che il Vernichtung, l’annientamento. Un’iperbole linguistica che nel Novecento passerà dalla provincia delle parole al regno dei fatti. Il nipote del rabbino di Treviri, Karl Marx, pur non condividendo l’ateismo di stato propugnato da Bauer, non era insensibile alla tesi secondo cui al giudaismo era connaturato il culto di Mammona. Una posizione per certi versi sorprendente, tanto più in quanto già cominciavano a circolare gli studi di storici come Heinrich Graetz e Leopold Zunz che smontavano “l’antica calunnia”.
In fondo, Marx non vedeva di buon occhio un capitalismo soggiogato ai nuovi “signori feudali” della finanza, con i Rothschild nel ruolo di sovrani supremi. Chi occupava un trono, fossero gli Hohenzollern o gli Asburgo, i Borbone o i d’Orléans, era re soltanto di nome. Un tempo gli ebrei fornivano cavalli o oro, adesso controllavano i mercati azionari prestando denaro a loro piacimento, per sovvenzionare autocrati o monarchi costituzionali come Luigi Filippo. Essi, in cambio, davano in appalto miniere e ferrovie. Era inevitabile, quindi, il risveglio impetuoso di inveterati pregiudizi. L’usuraio medievale aveva solo cambiato aspetto. Adesso indossava gli abiti eleganti dei banchieri col cappello a cilindro i quali, fornendo o rifiutando un prestito, potevano decidere l’esito di una guerra o di un accordo di pace. Questi banchieri erano gli Arnstein e gli Eskele, i Biedermann, i Bleichröder, gli Hirsch e, anzitutto, i Rothschild, con la loro presenza capillare nelle piazze di Londra, Parigi, Vienna, Francoforte e Napoli.
A mano a mano che gli ebrei si riversavano nei licei e nelle università, praticavano la medicina e la giurisprudenza, il giornalismo e il teatro, lavoravano in banche, industrie e ferrovie, da un capo all’altro della Germania e della Galizia, della Boemia e dell’Austria il vecchio sospetto riemerse. I tradizionalisti che parlavano yiddish quando emigravano a Berlino, Praga, Vienna, Amburgo e Francoforte erano derisi per la loro ostinazione e ignoranza. E quelli che Wagner chiamava con disprezzo gli “ebrei acculturati” nelle loro redingote e carrozze erano sbeffeggiati con ancora maggiore veemenza per la loro ridicola, futile, penosa pretesa di essere trattati come persone normali. Eppure erano gli stessi ebrei che, pienamente inseriti nella vita metropolitana, avevano saputo moltiplicarne i consumi: con alberghi, grandi magazzini, giardini di piacere. E erano gli stessi ebrei che ora garantivano le principali comodità urbane: illuminazione a gas e riscaldamento domestico, tessuti e mobilio, tende e mercerie.
In Francia, imprenditori ebrei dotati di un eccezionale fiuto per gli affari erano i fratelli Pereire, Émil e Isaac, ideatori di una rete ferroviaria che avrebbe collegato Parigi con Lione, Rouen e Marsiglia. La prima tappa del piano prevedeva una linea di ventuno chilometri tra Parigi e Saint-Germain-en-Laye per il trasporto sia di passeggeri che di merci. Lo stato avrebbe espropriato i terreni e coperto i costi di costruzione e del materiale rotabile; alla ditta Pereire sarebbe stata affidata la gestione. Furono così assunti quarantamila operai e il progetto fu completato in anticipo, con una spesa persino inferiore a quella preventivata. Il 24 agosto 1837 la regina Maria Amalia inaugurò la linea. Due giorni dopo, quando fu aperta al pubblico, diciottomila passeggeri raggiungevano in una ventina di minuti Saint-Germain. Émile e Isaac, discepoli del socialismo di Saint-Simon, pensavano di aver così dimostrato che benessere sociale e profitto non erano inconciliabili. Amici e nemici della ferrovia festeggiarono insieme l’avvio di una nuova epoca. Heinrich Heine, che si trovava nella capitale francese, paragonò l’evento alla scoperta dell’America o all’invenzione della stampa. Ma la malasorte era dietro l’angolo. L’8 maggio 1842 il treno del pomeriggio stava rientrando a Parigi con 770 passeggeri che tornavano da una gita nel parco di Versailles. La Compagnia aveva allestito un convoglio di diciotto carrozze trainato da due locomotive. Si rivelò una pessima scelta. L’asse della locomotiva di testa si spezzò. I vagoni si ammassarono sulla seconda locomotiva ed entrambe le motrici presero fuoco. Le fiamme avvolsero le carrozze di legno. Almeno quaranta passeggeri morirono arsi vivi.
In Francia, la ferrovia ideata dai fratelli Pereire, imprenditori ebrei, segnò l’avvio di una nuova epoca. Ma la malasorte era dietro l’angolo
Appena pochi mesi prima, la Camera dei deputati aveva approvato una legge sull’ampliamento della rete ferroviaria che si rifaceva al contrattuale sperimentato nel 1837. Fu gioco facile per Toussenel chiederne la revoca. Non la ottenne, ma l’opinione pubblica rimase impressionata dal suo duro atto d’accusa: non era tollerabile che lo stato – finanziato dalle tasse dei cittadini – si assumesse gli oneri, mentre gli ebrei incassavano i profitti. Non basta. Nel 1846, un altro incidente vicino alla cittadina di Fampoux provocò la morte di quattordici persone. Nelle ferrovie avevano investito anche banchieri cattolici e protestanti, come gli Hottinguer di Ginevra, ma l’ira popolare addebitò la catastrofe esclusivamente all’avidità degli ebrei. Sessantamila copie del pamphlet di un agit-prop ante litteram, Georges Mathieu-Dairnvaell, intitolato Histoire édifiante et curieuse de Rothschild I, roi des Juifs, andarono a ruba nel giro di un paio di settimane. Le denunce erano sferzanti. Al di là degli incidenti, le “ferrovie ebraiche” costringevano i viaggiatori di seconda e terza classe in vagoni esposti alle intemperie e al gelo, adatti piuttosto al trasporto del bestiame al macello. Un abominio.
Per millenni gli ebrei erano stati denigrati e perseguitati perché oscurantisti e asociali. Adesso venivano paradossalmente attaccati per il motivo opposto: perché volevano modernizzare il paese. Secondo il socialista Pierre Leroux, ormai costituivano un grave pericolo per l’integrità della società cristiana. E chiese di ricacciarli nei ghetti improvvidamente aperti da Napoleone. Considerati individui senza cuore se non per le proprie ricchezze, non più identificabili con certezza attraverso i segni distintivi sui loro abiti, agli ebrei quindi veniva persino contestato il loro ingegno finanziario e industriale, il loro ruolo di promotori del progresso economico e civile della Francia. L’eterna sindrome della cospirazione ebraica aveva vinto ancora una volta.
I nemici delle ferrovie, simbolo di quel progresso, rialzarono la testa. Come sosteneva il poeta e scrittore britannico John Ruskin, uccidevano lo spazio e la serena contemplazione del paesaggio, rendevano gli esseri umani “pacchi viventi”. E l’eccitazione di Heine sul treno che gli permetteva di “odorare i tigli di Berlino”, era sempre accompagnata da un cupo sgomento. Perché il treno ti faceva ammalare, ti scuoteva i nervi, cosicché dovevi farti curare dall’immancabile medico ebreo presente in ogni angolo d’Europa. E poi le ferrovie avevano derubato l’uomo della consolante intimità con le sue bestie da soma: niente più carezze sulla criniera del cavallo da tiro. Nessuno accarezzava il cavallo di ferro che lo aveva sostituito. Alcuni lamentavano che le carrozze non consentivano di socializzare: erano un ambiente in cui i viaggiatori non facevano altro che tirare fuori dal taschino l’orologio per controllare se il treno fosse in orario. Altri protestavano, al contrario, perché le anguste carrozze di seconda classe favorivano fin troppo il contatto umano, obbligandoli a respirare il fiato fetido del vicino o a tapparsi le orecchie per non sentire russare un marinaio perso nel suo suo sonno da ubriaco.
Nella seconda metà dell’Ottocento, insomma, per molti il mondo stava andando in malora. E, ovviamente, era tutta colpa degli ebrei.