Foto di Barbara Ledda
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La Storia si fa donna. Chi è Lisa Roscioni
La docente che riempie i teatri interrogando il passato tra regine, badesse, processi e città, a Trieste racconta le "Lezioni di storia" ideate da Laterza
Parla del passato, ma anche di un futuro che sembra essersi nascosto nello sconforto all’ultima curva del secolo breve; riempie teatri e piazze con lezioni che illuminano la parte in ombra di storie note e meno note; rivela, in un gioco di scatole e rimandi, personaggi e mondi di un Cinque-Seicento capaci di specchiarsi, gattopardeschi, in un presente dove tutto è cambiato per non cambiare, e di sfidare gli spettatori di oggi da una Roma d’antico regime che, d’un tratto, si fa coro garantista attorno al condannato. Si chiama Lisa Roscioni ed è docente di Storia Moderna alla Sapienza, saggista e autrice radiofonica, la donna che strappa Cristina di Svezia o Beatrice Cenci alla leggenda e la monaca di Monza all’involucro manzoniano, trasformando se stessa in narratrice magnetica, il palco in un viaggio nel tempo e il podcast in un percorso dal vivo tra boschi e ruderi, alla ricerca dei luoghi che hanno fatto da sfondo allo scandalo della Badessa di Castro (che tanto aveva affascinato Stendhal). Il curriculum è insomma molto denso, ma non solo quello spiega fino in fondo il crescente seguito di Lisa Roscioni fuori dalle aule universitarie, pur restando lei prima di tutto, e con convinzione, una docente con cattedra nel primo ateneo della Capitale, quindici anni di insegnamento universitario a Parma alle spalle e studi ancora precedenti all’Ecole des Hautes Études en sciences sociales di Parigi, sua città di elezione.
Partendo da un futuro vicinissimo, ma affacciato sul passato, domani, 9 novembre, Lisa Roscioni sarà a Trieste, per le “Lezioni di storia” ideate da Laterza, gli “Anni della battaglia”, intesi come fine del mondo di Francesco I e Carlo V, sotto al titolo di “Tutto è perduto fuorché l’onore”. Facendo un piccolo passo a ritroso lungo la linea degli ultimi mesi, invece, ci si imbatte in Lisa Roscioni in una Piazza di Pietra gremita per il “Roma Storia Festival”, tra file di spettatori attenti e turisti che sciamano verso l’aperitivo: Roscioni è sul palco, e resuscita per i convenuti la Roma bifronte a cavallo tra sedicesimo e diciassettesimo secolo: splendida e dolente, maestosa e stritolata tra intrighi, violenza, polvere, fango e spazzatura. Uscendo dal Tempio di Adriano e salutando il pubblico, Roscioni trova che quella piazza “confusa, chiacchierona e distratta” ricordi molto l’atmosfera in cui sono maturati i fatti che hanno portato all’11 settembre del 1599, data oggetto della lezione e giorno in cui una folla mormorante ha affollato le vie che fanno da sfondo al viaggio verso il patibolo della giovane nobile parricida Beatrice Cenci, tra pianti di donne e sussurri dei così chiamati “frati consolatori”, tra carrozze e coro greco di voce popolare che sovrasta trame di famiglie nobili, realpolitik papale e torri dove una moglie e una figlia possono essere rinchiuse da un padre padrone, fino a precipitare nella pozza di una giustizia che deve farsi spettacolo macabro per esibire il potere, ottenendo però, alla fine, l’effetto contrario. Ed è nel viaggio verso una verità che per Roscioni è sempre frammento che innesca un percorso di ricerca e indagine ma mai, come dice al pubblico, luce totale su quello che le cronache processuali dell’epoca e altre fonti non possono restituire, che la storica parla all’oggi, evocando senza commento la truculenza del supplizio ma anche la frase detta da Beatrice a monte del parricidio: “Io non voglio stare più in questa vita”. Che cosa c’è dietro a quella frase? “Senza domande non c’è storia”, dice Roscioni raccontando il suo lavoro come un’avventura. La frase di Beatrice apre un’altra porta, forse su una decisione che può essere soltanto intuita dai posteri e su un soffio di consapevolezza legato al tema della reputazione, ieri fatta di ripudio e isolamento sociale e oggi di dannazione sul web.
Ma il racconto a ritmo serrato di Roscioni attorno a personaggi sconosciuti o rimasti intrappolati nei libri di scuola, tuffo diretto nell’epoca, può portare anche a giorni più recenti e al brulichio di passanti lungo il primo chilometrico tapis-roulant comparso a Parigi nei giorni dell’Esposizione universale del 1900, come ha raccontato la storica il 26 ottobre, in diretta da Bolzano, per “Futuradio”, festival di Radio tre, sviluppando il tema “Il futuro è finito? Storia di un’idea che ha cambiato il mondo” e facendo percepire con la voce l’entusiasmo dei visitatori d’allora per quel grande palcoscenico di scoperte che sembrava disegnare un domani di progresso e meraviglie: l’elettricità, il cinematografo e, sul lato politico, “l’Avvenire socialista” con il suo “suono di fabbriche e rivoluzioni”. Poi, il crollo delle speranze lungo tutto il secolo breve, fino alla grande illusione successiva e allo snodo inquietante degli ultimi cinque anni: Roscioni cita un saggio di Yuval Noah Harari (“Homo deus, breve storia del futuro”, ed. Bompiani), in cui l’autore parte dall’assunto che l’umanità abbia sconfitto carestie, guerre e pestilenze e debba quindi affrontare pericoli più immateriali. E invece: ecco il Covid, l’Ucraina, il Medio Oriente e la crisi climatica, dice Roscioni, parlando di un futuro che da promessa si fa minaccia.
Restituire la voce a immagini mute, questo è anche il lavoro dello storico, dice Roscioni quando la incontriamo in una piccola libreria dove sembra divertirsi, nell’attesa, a interrogare silenziosamente le copertine dei libri esposti, e le chiediamo del suo presente e del suo passato di saggista e autrice di testi che hanno oltrepassato, per successo, il perimetro degli addetti ai lavori, a partire da quelli in cui sviscera i temi in cui si è imbattuta, un po’ per caso e un po’ no, all’inizio della carriera, quando, seguendo una domanda e poi un’altra e poi un’altra ancora, si è appassionata alla storia dei manicomi (altra domanda: quando la privazione della libertà è diventata sinonimo di guarigione, ammesso che rinchiusi si guarisca?). Sono nati così i libri “Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi in età moderna” (ed. Mondadori) e “Lo smemorato di Collegno. Storia italiana di un’identità contesa”, (ed. Einaudi).
E nascono così, interrogando e seguendo un filo, una traccia, una suggestione – su e giù per le biblioteche di tutta Europa, diventate un luogo familiare e una tappa fissa nei viaggi che hanno tenuto insieme passione per il lavoro e vita privata, tra cattedre, matrimonio, figlio — le lezioni che oggi richiamano a teatro estimatori impensabili per gli argomenti trattati, persone di ogni età che si accalcano ordinate in serpentoni all’inglese davanti alle sale (è successo nel gennaio scorso, davanti al Teatro Verdi di Trieste, in una sala da 1220 posti) o, in versione smaterializzata, sui canali social dell’autrice dove, all’inizio di ottobre, alla vigilia del festival “Eccentriche-storie di donne fuori dal comune”, la “Vita breve della pittrice Paula Modersohn-Becker”, argomento della conferenza poi tenuta da Roscioni dal vivo a Bologna, è diventata un piccolo cult per gli ascoltatori incantati dall’esistenza matta della giovane pittrice espressionista tedesca che, dopo aver lasciato il marito per dare una possibilità alla vera se stessa in quel di Parigi, si chiede come sarà la nuova vita dove “tutto deve ancora accadere”.
Ma Lisa Roscioni non è una divulgatrice né una influencer. Non è neanche un’attrice, anche se sul palco una certa attitudine teatrale emerge, al punto che, ritrovandosela davanti, non si può fare a meno di chiederle se non abbia mai recitato davvero. E in qualche modo la risposta è sì, seppure per gioco e come elemento del lessico familiare di casa Roscioni, la cui tradizione prevedeva che d’estate, nella casa dov’era presente una sorta di piccolo teatro interno, a nove, dieci, undici o dodici anni, la futura storica, davanti ai parenti, ma anche con il coinvolgimento dei medesimi, era capace di mettere in scena, da regista e da mattatrice con più parti in commedia, una pièce liberamente ispirata alla “Lampada di Aladino” o a “Gl’innamorati” di Carlo Goldoni o alla “Bisbetica domata” di William Shakespeare. Era già presente, in nuce, la Roscioni ragazza che, tra liceo e laurea, aveva fatto vita divertente da “studentessa organizzata”, studiosa ma non secchiona, frequentatrice dell’ambiente universitario romano ma con il vizio dell’inseguimento dei personaggi da romanzi nel loro set originale (e dunque viaggi per magioni di campagna e brughiere per “Orgoglio e pregiudizio”, Lubecca per “I Buddenbrook”, soffitti bassi per “Delitto e castigo”).
Ed era forse già attiva, nella Roscioni piccola attrice casalinga, la storica che in aula, in radio e sul palco porta tutto il percorso fatto fin da quando, lavorando su una serie di documenti spariti, e spostandosi di città in città sulle orme di un alchimista imbroglione, aveva trovato le tracce di altre storie oscure, tra carceri, tribunali, folli e finti folli. Evocazione e avventura, dunque, ma non divulgazione. E’ una parola che Roscioni non sente come sua: “Parlare di divulgazione, soprattutto nel campo delle Humanities”, dice, “implica spesso l’idea che esista una cultura ‘alta’ e inaccessibile, da trasmettere a chi ne è privo. E’ un presupposto che non condivido. Il pubblico è attento, curioso, esigente: riconosce la differenza tra un influencer o un giornalista —sia detto con rispetto — che racconta una crime story e uno storico. E non è solo una questione di competenza o di fonti, ma anche di stile, di modello”. Roscioni predilige quello francese o anglosassone: “Non c’è argomento, anche complesso, che non possa essere raccontato con un linguaggio accessibile e al tempo stesso rigoroso”. Altra parola che non spiega il tutto: lo storytelling. “Non mi limito a ricostruire una vicenda, ma cerco e mi pongo domande senza la pretesa di offrire certezze assolute”, dice Roscioni: “La storia è una forma di ricerca, un metodo, uno sguardo sul mondo, sul presente come sul passato. E’ questo che cerco di condividere”.
Da storica Roscioni lavora nel e sul silenzio, per poi dare voce e riportare in vita con precisione e senza pesantezza accademica. Ma che cosa porta un pubblico di non addetti a seguire una sua lezione? “Avverto una sete diffusa di cultura, ma non nel senso dell’intrattenimento. Come desiderio di capire, conoscere, avere strumenti per orientarsi in quest’epoca confusa, segnata da notizie manipolate. E’ a questo che cerco di dare una risposta”. Anche con i suoi studenti: “Non parto dal presupposto che siano ragazzi ignoranti e ottusi ai quali instillare qualche nozione”, dice Roscioni. “Sono intelligenze vive, lampadine da accendere, esigenti e alla ricerca di bussole. Basta solo guardarli, ascoltarli, mettersi in comunicazione con loro”.
Fuori e dentro l’aula, divertendosi a recitare la parte della rivoluzionaria francese Olympe de Gouge in una conversazione impossibile con Don Milani sotto la conduzione radiofonica di Edoardo Camurri o illuminando una delle verità possibili tra le campagne laziali e la British Library, Roscioni si imbatte in rivoli di storie e controstorie. Come quelle che, anni fa, per vie traverse, l’hanno portata a illuminare l’arrivo a Roma di Cristina di Svezia, strana regina colta ma non intellettuale, educata come un primogenito maschio dal padre re. Regina che abdica convertendosi al cattolicesimo in un paese protestante, anche se poi non pare molto devota e anzi ride e si tormenta i capelli in chiesa e si diverte a sparare da Castel Sant’Angelo vere palle di cannone contro Villa Medici, e si stabilisce a Palazzo Farnese, accolta dal Papa ma circondata di chiacchiere, con una corte di squinternati malpagati che, per sostentarsi, strappano rame dai tetti e stucchi dalle carrozze. Perché quella conversione, si è chiesta Lisa Roscioni, per vero afflato o per altri motivi? La domanda resta aperta, e la storia è sempre anche il risultato di un dialogo “con fantasmi che ti portano all’Inferno”, dice Roscioni citando lo storico Marc Bloch. “Come Orfeo cerchiamo di afferrare un’Euridice che ci sfugge”, che sia davanti all’Inquisizione o nel minuetto di dissimulazione di una famiglia secentesca in crisi di liquidità o, infine, di nuovo tra gli scaffali di una biblioteca in cui non ti senti mai solo, dice Roscioni, “perché la storia ti fa compagnia” anche quando “ti muove a tentoni e arrivi davanti a un buio che resta buio”. E a quel punto che fai? “A quel punto devi lasciarlo dov’è”.