l'indagine sorprendente sulla tavola urbinate
“L'inganno della città ideale”, scienza e letteratura in un romanzo riuscito
Il romanzo di Leonardo Ciacci è “accademicamente” e “scientificamente” così esplosivo che avrebbe potuto rendere irrilevanti i due protagonisti, che cercano di comprendere un dipinto la cui bellezza è avvolta nel mistero
Ho sempre pensato che uno dei principali vantaggi che hanno gli scrittori, spesso senza che neanche se ne rendano conto, è di affrontare i loro temi, quali che siano, senza alcun bisogno di dimostrazioni. Ai sociologi, ai filosofi e persino ai teologi si chiede di addurre buoni argomenti a sostegno delle loro tesi. Agli scrittori no. Ciò che si chiede loro è soprattutto che mordano la carne e il sangue della realtà e che la loro scrittura sia all’altezza, che dicano insomma una verità che non è necessariamente quella delle dimostrazioni razionali. Qualche volta però ci si imbatte in eccezioni. Ci sono infatti romanzi che sembrano scritti apposta per corroborare “scientificamente” una tesi, quasi che l’artificio letterario debba servire soprattutto a rendere la tesi più attendibile, a mitigarne gli spigoli e gli aspetti più controversi. Beati coloro che ne sono capaci.
In ogni caso è quanto mi è capitato di pensare leggendo il romanzo di Leonardo Ciacci, L’inganno della città ideale, appena pubblicato dall’Editore Pendragon. Non saprei dire con assoluta certezza se Leonardo Ciacci è uno scrittore o no. Di certo egli ha insegnato per quarant’anni Urbanistica all’Università Iuav di Venezia, ha scritto saggi e realizzato documentari e questa è la sua prima esperienza letteraria. “L’inganno della città ideale” potrebbe essere anche il titolo di un saggio. Ma si tratta di un romanzo, un romanzo ambientato nei giorni nostri e intessuto con la variegata e seducente materia che sgorga dal Rinascimento italiano. Si racconta di una giovane studiosa americana che arriva a Urbino da Baltimora per studiare la famosa tavola urbinate nota come “città ideale” sotto la guida di un professore della locale Accademia delle Belle Arti. Stiamo parlando di un dipinto la cui bellezza è avvolta nel mistero: non se ne conosce l’autore, non si conosce l’anno in cui è stato realizzato, né perché sia stato realizzato e che cosa realmente volesse rappresentare; è stato rinvenuto a metà dell’Ottocento nella sagrestia del Monastero di Santa Chiara di Urbino, ma nessuno sa come ci sia finito; e, infine, di “città ideali” ce ne sono tre, tutte attribuibili alla stessa mano: oltre a quella che possiamo ammirare oggi nella Galleria del Palazzo Ducale di Urbino, ce n’è una che si trova a Baltimora e un’altra che si trova a Berlino.
Attribuite praticamente a tutti i grandi del Rinascimento, da Giovan Battista Alberti a Piero della Francesca, da Fra Carnevale a Luciano Laurana, sono a tutt’oggi dipinti in cerca d’autore. Ce n’è abbastanza, credo, per imbastirci sopra una storia. Se poi consideriamo che l’intento del professor Tiberi, il protagonista del romanzo, è quello di smascherare il fatto che, come fa dire a un suo studente, “la città ideale è una nostra invenzione” (“L’inganno della città ideale”, appunto); se consideriamo altresì che le sue lezioni toccano in continuazione il tema affascinante del rapporto fra architettura e potere politico, e a questo aggiungiamo la bellezza della città di Urbino e della sua campagna circostante nonché una sorprendente capacità di intrecciare gloriose storie rinascimentali, antichi documenti e piccole storie dei nostri giorni; se consideriamo tutto questo, dicevo, può persino apparire scontato che ne sia uscito un romanzo bello e avvincente.
Riguardo all’autore delle cosiddette “città ideali”, Leonardo Ciacci sembra molto prudente, ma ci mette comunque sulla buona strada. Il suo professor Tiberi ne conosce il nome, ce lo rivela adducendo molti indizi, anche se, mancando la prova decisiva lo considera un nodo ancora “irrisolto”. In compenso, però, il professor Tiberi ci dice quale fosse la destinazione delle tre tavole: il teatro di Villa Imperiale a Pesaro. Non mi sembra poco, anzi. Se tra i lettori di questo romanzo ci sarà anche qualche storico dell’arte, mi immagino che sobbalzerà sulla sedia, forse ammirato forse indignato, di certo non potrà rimanere indifferente. Troppo incandescente la materia di cui si tratta. Per me che sono affascinato da sempre dalla “città ideale” urbinate come esempio enigmatico di una città che per essere “ideale” rinuncia alla presenza degli uomini (qualche anno fa ne scrissi anche su questo giornale), confesso che queste rivelazioni me la rendono molto più “reale” senza toglierle nulla in bellezza. Come amante della scrittura poi debbo fare un’ultima annotazione. La materia del romanzo, che evidentemente ha occupato la mente dell’autore non da oggi, è “accademicamente” e “scientificamente” così esplosiva che avrebbe potuto rendere irrilevanti i due protagonisti. Sarebbe stato persino comprensibile. Invece alla fine il professore Carlo Tiberi e la giovane Clare Kemp hanno assunto evidentemente il profilo tipico dei personaggi riusciti, se è vero che li immaginiamo come se continuassero a vivere, l’uno nella sua Urbino e l’altra nella sua Baltimora. Forse è proprio letteratura.
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