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“Il problema finale” di Pérez-Reverte

Sull'isola di Utakos rivive il miglior Sherlock, attingendo da romanzo e film

Mariarosa Mancuso

Il detective e il fedele Watson vantano molte imitazioni. L'ultima è il giallo di Arturo Pérez-Reverte "Problema finale”, dove gli ospiti di un albergo sono rimasti bloccati. Sarà presto una serie Netflix ma non sappiamo quando arriverà sulla piattaforma

Arthur Conan Doyle inventò Sherlock Holmes nel 1887 e lo fece sparire nel 1893. Da “Uno studio in rosso” a “L’ultima avventura”, titolo che non lasciava dubbi sull’antipatia maturata dallo scrittore per il successo del personaggio. Sherlock precipita con il mortale nemico Moriarty giù dalle cascate Reichenbach in Svizzera. Non fu un giochetto da soap opera, voleva davvero smetterla per dedicarsi ai prediletti studi sullo spiritismo – e credere ciecamente alla fake news del 1920: due ragazzine avevano fotografato le fate nel loro giardino. Sagome di cartone, gli scettici notarono subito che le pettinature erano all’ultima moda parigina. Sherlock Holmes fu risuscitato a furor di lettori. Per contrappasso letterario, il detective e il fedele Watson che ne scrive le avventure vantano molte imitazioni. Gli apocrifi si contano a centinaia e si aggiungono le versioni cinematografiche e televisive.

 

Quella di Guy Ritchie con Robert Downey Jr ridà a Sherlock la sua forza fisica, ha un passato da boxeur. “Sherlock” incarnato da Benedict Cumberbatch per la Bbc ha un presente da dandy, gli fanno pronunciare la battuta di Oscar Wilde che in punto di morte disse, guardando la brutta tappezzeria: “O se ne va quella carta da parati o me ne vado io”. Lo sfondo serve per apprezzare davvero le fatiche di Arturo Pérez-Reverte nel “Problema finale” (editore Settecolori). Non per leggerlo: scivola via veloce e appassionante (a parte qualche inciampo di traduzione, perlopiù citazioni cinematografiche non riconosciute). Lo scrittore spagnolo vanta un romanzo adattato nel 1999 per il cinema da Roman Polanski: l’intrigo bibliofilo “La nona porta” era tratto da “Il club Dumas”. “Il problema finale” è già una serie Netflix, ma ancora non sappiamo quando arriverà sulla piattaforma. Arturo Pérez-Reverte si è fatto strada tra una montagna di apocrifi, approdando su Utakos, una piccola isola davanti a Corfù rimasta isolata per un rovinoso temporale. Tra gli ospiti di un albergo rimasti bloccati, il primo che sussurra “delitto nella camera chiusa” – inteso come problema giallistico: c’è un morto, e la stanza è bloccata dall’interno – ha indovinato il genere. Lo scrittore spagnolo giocherà sul tema, citando gli enigmi classici. Abilmente, Arturo Pérez-Reverte si è insinuato tra lo Sherlock Holmes libresco e lo Sherlock Holmes dei primi film, quando a interpretarlo era Basil Rathbone. Quattordici in tutto, fissarono così anche l’abbigliamento canonico. Cappello da caccia con le alette, cappotto con mantellina, pipa in bocca, la battuta “elementare Watson!” che viene dal teatro ma nei romanzi non esiste.

 

Un Basil che è stato attore – anche in ruoli shakespeariani – e però viene ricordato solo per la pipa del detective – si trova sull’isola di Utakos assieme a nove persone che sembrano non avere nulla in comune. Lui ne conosce due: un produttore italiano sbruffone e una cantante lirica che ha avuto tempi migliori. C’è un villeggiante tedesco con consorte, uno scrittore di gialli da treno, due amiche che viaggiano insieme. La proprietaria della pensione si chiama Auslander, sembra ancora sofferente per il campo di concentramento. Siamo nel 1960, nel piccolo albergo un paio di persone cucinano, servono a tavola, sbrigano piccole faccende. Una delle due amiche muore subito, si è inoltrata verso la spiaggia e non è ritornata in camera. La polizia è bloccata dal maltempo, lascia le indagini allo Sherlock Holmes del cinema – in aperta rivalità con lo scribacchino di gialli dozzinali. Mr. Holmes ogni tanto rivolge uno sguardo affettuoso alle bottiglie, da anni ha smesso e ancora prova un’acuta nostalgia.