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L'asse del kitsch. Autocrati uniti nell'Internazionale del cattivo gusto
Sono cominciati i lavori alla Casa bianca per la pacchiana “ballroom” di Trump. Il presidente-palazzinaro non poteva certo farsi superare da nessuno in fatto di cafonaggine. E anche l’America non poteva essere da meno in termini di esibizione del cattivo gusto, del Cremlino di Putin. Da Pericle a Hitler, una rassegna
La prima volta che vidi la Casa bianca, rimasi impressionato da quanto fosse semplice, sobria quella residenza del potere mondiale. Niente di imponente. Un edificio coloniale bianco con colonnato e timpano classico in facciata, come tanti del Sud americano dell’Ottocento. Corridoi modesti, uffici piccolissimi (tranne quello ovale, dove lavora il presidente), sala stampa in una dependance che sembrava un garage adattato. Conferenze e cerimonie all’aperto, come conviene ad una nazione abituata ai grandi spazi vergini della natura, o al massimo sotto tendoni eretti per l’occasione. Ed ecco che Donald Trump corre ai ripari. Ne fa buttare giù l’East Wing, l’ala orientale, per farne un immenso salone da ballo in stile Trump Tower o Grand Hotel. Con colonne, dorature, specchi, boiseries, lampadari di cristallo, e chissà qual’altra pacchianeria. Era ora che rimediassero. A qualche americano è venuto un groppo in gola a vedere un’ala della Casa bianca abbattuta dalle ruspe, cumuli di macerie che sembrano quelle di Gaza. Ma mica l’America poteva essere da meno, in fatto di kitsch, di esibizione del cattivo gusto, del Cremlino di Putin, con la sfilata di massicci portoni d’oro spalancati, l’uno dopo l’altro, da soldatini in uniformi e postura che somigliano a quello del soldatino di piombo dello Schiaccianoci.
O del mega palazzo presidenziale di Erdogan ad Ankara. Nuovo di zecca, 300.000mq, 1150 stanze, all’interno di un Parco forestale istituito nel 1925 da Ataturk. Il Consiglio di Stato turco dichiarò che la costruzione del palazzo violava la legge e ne ordinò la demolizione. Tuttavia, la Presidenza, citando il paragrafo 2 dell’Articolo 105 della Costituzione della Repubblica di Turchia, dichiarò che “nessun appello può essere espresso da nessuna autorità giuridica, inclusa la Corte Costituzionale, contro le decisioni e gli ordini firmati dal Presidente della Repubblica”. L’avevano chiamato Ak Saray, “Palazzo bianco”, poi dovettero cambiargli nome, perché la gente l’aveva rinominato Kaç-Ak Saray (in turco kaçak significa delinquente). Per la cronaca, il primo ospite era stato Papa Francesco, il secondo Vladimir Putin. O della Residenza numero 55 di Kim Jong Un, in un complesso inaccessibile di 12 km quadrati. Oppure dell’imponenza imperiale di Chongnanhai (Mare del centro e del sud), la Città proibitissima a fianco della Città proibita, che fu la residenza di Mao dove ora risiede Xi Jinping. E che diamine, il presidente degli Stati Uniti d’America è forse il figlio del prete, quello che deve vergognarsi e correre a nascondersi di fronte alla magnificenza degli altri potenti?
Noblesse de métier oblige. Trump è un costruttore, o palazzinaro che dir si voglia. Non poteva certo farsi superare da nessuno in fatto di sfarzo edilizio. Un altro forse si sarebbe lasciato intimidire dalla simbologia che emana il luogo. O dalle inevitabili polemiche sul gusto architettonico ed estetico del restyling. Lui mica poteva farsi fermare o ostacolare da controversie tra commissioni di esperti, vincoli storici, permessi edilizi, violazioni di piani regolatori, magari giudici che ti fermano i lavori. Non che le regole lo abbiano fermato quando costruiva grattacieli a New York o casinò ad Atlantic city. Al posto dove fu eretta nel 1980 la Trump Tower c’erano i grandi magazzini Bonwit Teller and Co. Vi avevano lavorato grandi artisti. Il Metropolitan museum aveva chiesto che fossero preservati il finestrone di bronzo che sovrastava l’ingresso e due bassorilievi art-deco, raffiguranti donne nude che sventolavano grandi sciarpe. Trump glieli aveva pure promessi, purché il costo della rimozione non fosse eccessivo. Concluso che per lui costava troppo, li aveva fatti picconare senza pietà. Al processo che seguì – non per la distruzione ma perché si era valso di centinaia di immigrati polacchi senza permesso – si difese dicendo che tanto “erano di scarso valore artistico”, Ma diamine, lui non è più un immobiliarista qualsiasi costretto a penare su vincoli paesaggistici. E’ il presidente eletto dal popolo (da un quarto del popolo in verità, ma queste sono lì le regole del gioco elettorale). Quindi le regole le fa lui.
Per prima cosa aveva licenziato la commissione che sovraintende ai monumenti della capitale, azzerato tutte le istituzioni che avrebbero potuto avere a che ridire, sostituendoli con funzionari fedeli. Aveva imposto silenzio stampa e proibizione di diffondere immagini ai funzionari del Tesoro che si occupano del progetto. E persino alla First lady Melania che aveva espresso privatamente dubbi in proposito. I modellini che lui ha esibito per illustrarlo hanno qualcosa di surreale, tipo le fantasie di Escher, scaloni che non portano da nessuna parte, finestroni che agli angoli sbattono uno contro l’altro. Permessi solo foto, modellini e plastici che mostrava lui. La nuova ballroom dovrebbe avere una dimensione doppia rispetto all’attuale corpo centrale della Casa bianca, una quantità spropositata di dorature. Nei disegni di cui è venuto in possesso il New York Times cambiano vorticosamente elementi strutturali, tipo il numero delle colonne. Trump, con tutto quel po’ po’ che ha da fare, ha una riunione settimanale in cui lo aggiornano sul progetto. Pare abbia la sua da dire su tutto, dai colori alle decorazioni. La previsione di costo è salita dai 200 milioni iniziali a 300, la settimana scorsa 350. Ma niente paura: piovono donazioni da ricconi privati, ai quali interessa ingraziarsi il presidente. A buon rendere evidentemente.
Non c’è solo Trump. C’è un’Internazionale, un Asse del Kitsch. Un filo rosso che collega i palazzi e il bad taste dei despoti o aspiranti despoti. Un kitsch che dall’edilizia monumentale, affermazione di potere e di cattivo gusto quanto un tempo erano le grandi parate militari, le sfilate delle cannoniere. Il Kitsch non è solo immobiliare. Deborda nel linguaggio politico, nella diplomazia, nei rituali sempre più stanchi dei summit internazionali, nella litania dei comunicati ufficiali. Ha fatto scalpore, suscitato un moto di disgusto, il video su Gaza in cui, emergendo sulla battigia da un antro buio ingombro di rovine, dei bambini entrano in un mondo da favola, una Gaza Disneyland irta di grattacieli, di lussuosi resort sul mare, di colossali statue d’oro di Trump, nella quale tutti ballano e si divertono, sorseggiano cocktail, in una sorta di Papeete lunga tutti i quaranta chilometri della Striscia. Era parsa particolarmente di cattivo gusto.
Ma la trovata non era nuova. Già nel 2018, alla vigilia del summit che avrebbe portato al clamoroso incontro tra il Trump del prima mandato e Kim Jong Un, la Casa bianca aveva diffuso un filmato in cui si vedevano bambini coreani che corrono e giocano su una grande piazza lastricata, cavalli bianchi che galoppano verso il sole al tramonto, grattacieli svettanti, supermercati colmi di ogni ben di dio, treni alta velocità, e non più la tartaruga superblindata che Kim continua ad usare…, alternati a immagini in bianco e nero di guerra, miseria, rovine, distruzioni, risalenti al primo conflitto nella penisola coreana, la guerra più assassina della seconda metà del Novecento. Con colonna sonora hollywoodiana. Il senso: sta a voi scegliere tra un futuro di nuove tragedie o un futuro di prosperità senza limiti. Insomma: mangiare questa minestra o saltare questa finestra. Ma messa in modo che più kitsch di così non si può. La cosa curiosa è che non pare che il dittatore nordcoreano se ne fosse adombrato. Tra cultori del kitsch ci si intende. E in materia i nordcoreani non sono secondi a nessuno. Per questa volta ci è stato risparmiato un nuovo incontro tra Kim e Trump in occasione della sua maratona diplomatica asiatica.
In Corea – sia Nord che Sud – c’ero andato nei primi anni ‘80, quand’ero corrispondente de l’Unità in Cina. Di Pyongyang mi aveva colpito il vuoto assoluto. Piazze immense, edifici monumentali, una distesa infinita di marmo. Ma senza anima viva. Così come desolante era il vuoto dei negozi alimentari, con poco, sparso scatolame in vetrina e sugli scaffali. Peggio, molto peggio che la Mosca di Breznev. In confronto, Pechino, che pure era uscita solo pochi anni addietro dalla Rivoluzione culturale, sembrava la Ville lumière. Avevo scritto quel che avevo visto. I nordcoreani se n’erano doluti con Botteghe oscure. Senza conseguenze, tranne una battuta del mio direttore di allora, Gerardo Chiaromonte: “Li disprezzi proprio i nordcoreani”. Potevo farmi forte di un’altra battuta dell’allora capo del Partito comunista cinese, Hu Yaobang, che avevo intervistato giusto poco dopo un suo viaggio in Corea del Nord. “Non mi hanno stupito le immense folle festanti. Questo lo sappiamo fare anche noi cinesi. Ma non ho capito come facessero anche a farli tutti piangere…”. La battuta gliel’avevo censurata. Sì, lo so, non è cosa molto professionale per un giornalista. Non volevo causargli incidenti internazionali. Qualche anno dopo riferii tale e quale quanto mi aveva detto in un’altra intervista, circa i “misteri insoluti della storia cinese” e la necessità di una “modernizzazione” politica oltre che economica e militare, in altre parole di un futuro di democrazia per la Cina. Generoso ma irrealistico. Deng Xiaoping e i vecchi marescialli superstiti delle purghe di Mao lo fecero fuori in quattro e quattr’otto.
C’è una lunghissima storia di affinità tra potere assoluto, grandi costruzioni e grandi opere. Karl Wittfogel, uno studioso tedesco ispirato da Karl Marx e da Max Weber avrebbe pubblicato negli anni ‘50, in America, un’opera monumentale, Oriental Despotism: A Comparative Study of Total Power, in cui definiva il “modo di produzione asiatico” una formazione storico-sociale a sé rispetto al capitalismo e al socialismo. Siccome era stato comunista, con l’arrivo dei nazisti al potere nel 1933 era finito in campo di concentramento. Liberato grazie alle pressioni internazionali, si era esiliato a fare ricerche in Cina. Per sua fortuna, disgustato dal Patto Hitler-Stalin del 1939, andò in America. Un amico, Fernando Orlandi, mi ha fatto notare che già anche per la conseguente spartizione della Polonia tra Wehrmacht e Armata rossa Mosca aveva usato la definizione “operazione militare speciale”. Se Wittfogel avesse riparato nella Russia di Stalin avrebbe fatto una brutta fine. Per lui le dittature di Stalin e di Mao erano casi particolari di dispotismo orientale, di società di grandi lavori basate sulla mobilitazione di masse di schiavi.
Stalin aveva al Cremlino uno studio molto sobrio, con pochissimi soprammobili. Sulla scrivania teneva una bella edizione di Petrarca regalatagli da un militante italiano. L’esibizione del lusso lo riservava alle opere pubbliche, a cominciare dalle stazioni della metropolitana di Mosca, o all’architettura di regime. Lenin il suo mausoleo che deturpa la Piazza rossa non l’aveva voluto lui. Neanche Mao il suo in Piazza Tiananmen. Ma aveva fatto demolire le mura di Pechino e quasi tutti i pailou, gli archi in legno laccato che ornavano le strade e gli ingressi ai templi. L’unica decorazione nel suo studio erano i libri fascicolati alla maniera cinese tradizionale nelle scatole di tela, con pendenti le etichette coi titoli. Il cattivo gusto lo lasciava al popolo, con i miliardi di distintivi patacca, i poster col suo ritratto appesi in ogni cucina e le figurine in ceramica (tutte cose ormai introvabili, se non in copie nuove di zecca).
In confronto, il bagno di Hitler nel suo appartamento a Monaco è kitsch da borghesucci. Fu immortalato nel selfie che la fotografa Lee Miller si fece dopo essere entrata nel palazzo al seguito dei soldati della 45ma divisione americana. E’ tra i 160 scatti esibiti nella nostra in corso fino al 1° febbraio 2026 al Centro italiano per la Fotografia di Torino, accanto agli altrettanto celebri scatti della Miller a Buchenwald appena liberata, la prima testimonianza dei campi di sterminio. Kitsch epico, da despota, invece sono i progetti per la trasformazione di Berlino capitale del Reich millenario, che Hitler aveva affidato ad Albert Speer, e con cui si trastullava gongolante, e il film di Leni Riefenstahl, Il Trionfo della volontà sul raduno nazista di Norimberga del settembre 1934.
Il faraone tiranno Cheope ci ha lasciato la sua piramide funeraria. Napoleone, il Louvre, palazzo reale riadattato per ospitare i tesori d’arte trafugati dai suoi eserciti in mezzo mondo. Viene ancora usata per magnificare la grandeur della Francia la reggia di Versailles, voluta dal Re sole Luigi XIV, per non essere da meno del chateau a Vaux-le-Vicomte del suo ministro delle finanze (cioè delle tasse), Nicolas Fouquet. Gli antichi ateniesi ci hanno lasciato il Partenone, simbolo di potenza imperiale voluto da Pericle. Che ha una sua storia di intrighi e contestazioni politiche, di speculazioni, sprechi, ruberie e appropriazioni mirabilmente narrate nel libro di Giovanni Marginesu, Il costo del Partenone: Appalti e affari dell’arte greca (Salerno, 2020). Oltre a Pericle, dopo le debacles nella Guerra del Peloponneso, era finito sotto processo, per essersi intascato una parte dei fondi, anche il sommo scultore, architetto e sovraintendente ai lavori del Partenone, Fidia. Era una delle più belle opere di tutti i tempi. Prima tempio pagano, poi chiesa e poi moschea, era stato trasformato dai turchi in polveriera. Andò in mille pezzi quando, durante l’assedio del 1687 i mortai da 500 libbre dei mercenari tedeschi al seguito del comandante veneziano la centrarono, non si sa quanto accidentalmente.
I resti del Partenone finirono dispersi in mezza Europa. Il buffo è che, per i gusti di oggi, l’originale di quella meraviglia era anche il colmo del kitsch. Non solo la gigantesca statua di Atena in armi, tutta ori e avorio, ma l’intero tempio era dipinto a colori sgargianti. Quando i fregi arrivarono a Londra, conservavano ancora tracce del pigmento. Furono accuratamente scalpellati e scartavetrati, perché per il gusto dell’epoca la scultura classica dovesse essere rigorosamente bianca.
De gustibus non est disputandum. Gillo Dorfles definiva il kitsch come “un’operazione apparentemente artistica che surroga una mancante forza creativa attraverso sollecitazioni della fantasia per particolari contenuti (erotici, politici, religiosi, sentimentali)”. Per Milan Kundera “il kitsch è la negazione assoluta della merda”. Nel senso che elimina dal campo visivo tutto ciò che è essenzialmente inaccettabile. Kundera ce l’aveva col comunismo reale della sua Cecoslovacchia invasa dai tank sovietici nel 1968. Ma più in generale il kitsch sarebbe “l’ideale estetico di tutti gli uomini politici, di tutti i partiti e i movimenti politici”. Oggigiorno però la merda non viene più negata, nascosta, anzi viene esibita. Come nel video in cui Trump, alla guida di un caccia con tanto di corona sul capo, bombarda con escrementi i dimostranti che lo contestavano in corteo a Washington nel No Kings Day. Il vero guaio è che nella merda ci siamo tutti.
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