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Il quiet luxury è al tramonto. Da dove arriva il nuovo kitsch
La volgarità è una cosa, il vitalismo che si ribella al grigiore borghese è un’altra. Da Donald Trump al “Rheingold” scaligero passando per "Megalopolis" di Francis Ford Coppola
Dopo la seconda vittoria di Donald Trump alla Casa Bianca, sarà difficile credere che un articolo sulla nuova insorgenza del kitsch sia stato discusso per diverse settimane, valutato e soppesato, perché nella scala dell’eversione estetica, e qui siamo tutti d’accordo, nulla potrà mai eguagliare quel ciuffo rossastro (tizianesco sarebbe aggettivo troppo prezioso), che il suo proprietario cura e coltiva con sollecitudine maniacale e molto evidente. Invece, è la pura verità. Ben prima che le elezioni negli Stati Uniti dessero nuovo vigore all’uso delle creme autoabbronzanti che credevamo squagliate nello champagne dei risotti anni Ottanta, alle volgarità contro le donne e alle fellatio mimate al microfono come le vecchie rockstar ma senza lo stesso hype, era chiaro che l’epoca del lusso sussurrato, il quiet luxury di cui ci hanno bombardati negli ultimi due anni come delle splendide cornici dieci anni fa, fosse avviata lungo il viale del tramonto.
E dopotutto, non è che il lungo silenzio di Kamala Harris nel concedere la vittoria al contendente sia stata una mossa più elegante o meno kitsch delle invettive di Trump che per mesi le ha dato della “peggior candidata di sempre”, dopo la cocente sconfitta verrebbe da dire a ragione, o ancora delle reazioni isteriche delle star di Hollywood che, verificando ex post quanto il loro potere di orientamento elettorale delle masse sia stato pari a zero o abbia sconfinato addirittura nei numeri algebrici, si sono lasciate andare sui social a invettive contro di straordinaria povertà lessicale contro i propri stessi follower (“Vi odio tutti”, ha scritto la rapper Cardi B, in linea con la propria predilezione per gli abiti in pelle di serpente color arancio e i body a rete con cui si presenta alle sfilate mostrando il lato eponimo). Nove ore sono il tempo limite per riconoscere di avere perso e offrire ai propri sostenitori un discorso all’altezza: oltre quello iato ci si qualifica inequivocabilmente “classless”, privi di classe, come hanno definito Harris i media americani, posando sulla sua esperienza elettorale una pietra tombale come il sommo sacerdote Ramfis sulla prigione di Aida e Radamès, opera mirabilmente kitsch che peraltro, per riuscire davvero in scena, deve concedere almeno un ventaglione di piume all’estetica grossière dell’orientalismo.
Così, mentre la moda mondiale, che per tutta questa campagna elettorale ha detto zero, adesso si è trincerata nel più assoluto silenzio, timorosa di subire le conseguenze di una guerra commerciale contro la Cina e l’Europa, è arrivato il tempo della ribellione al cashmere greige, al lusso che non osa dire il proprio nome neanche a mezzo stampa e se proprio deve lo fa per acronimo, con soave ipocrisia, perché non si parla di soldi a tavola, figurarsi in copertina, alle voci soffuse “perché chi ha quattrini parla a voce bassa”, come chiosa quella geniale impunita della comica inglese del momento, Jen Brister, alle furlane foderate di peluche perché va bene l’understatement, ma con i piedi nudi infilati in pieno inverno nelle scarpine di velluto si crepa di freddo (le contadine di Spilimbergo dei tempi di mia nonna, infatti, applicavano sotto le suole i vecchi copertoni delle bici, le indossavano con i calzettoni di lana e naturalmente in casa, perché per uscire a meno dieci gradi mettevano gli zoccoli con la tomaia di cuoio e la punta rialzata per fendere la neve). Nello stile quotidiano come a teatro e al cinema, aleggia ovunque un certo friccicore pacchiano occultato sotto dosi massicce di intelligenza artificiale che “fa moderno”, vedi l’ultimo film di Francis Ford Coppola, “Megalopolis”, che a ogni inquadratura sembra aver rubato gli sfondi salvaschermo di serie dei pc. Il tempo vira insomma al brutto, ma non è detto che sia un male, anzi: il mondo è andato avanti strillando e citando grandi autori per sentito dire esattamente come i personaggi di Coppola con Marco Aurelio, peraltro in linea con il trend che qualche mese fa furoreggiava fra gli utenti di sesso maschile su TikTok (pov: “Quante volte al giorno pensi all’impero romano?” e giù bestialità, andate ad ascoltare le risposte di certi tizi dell’Alabama e vi spiegherete il perché della vittoria di Trump, oltre all’immarcescibile successo dei centurioni in costume che scattano selfie a pagamento con i turisti in calzoncini e t-shirt slabbrate dalle parti del Colosseo mentre quelli chiedono quando combatteranno nell’arena).
Le case dell’umanità, anche quelle della Grecia antica ai nostri occhi elegantissime e raffinatissime e giustamente, non erano allestite in color panna, grigio e marrone, colori di questo inverno e in generale della borghesia operosa dai tempi di Lutero, ma in rosso, giallo e blu: poche settimane fa mi sono calata nelle tombe della Neapolis greca riaperte nel 2022 sotto il rione Sanità e mi sono imbattuta in un trionfo mozzafiato di colori e di divani scolpiti nella pietra, in un ideale contrappunto come la complessa architettura barocca del palazzo dello Spagnolo che sta loro di fronte. Il buon gusto, qualunque cosa sia perché si tratta di variabile complessa, come scriveva Gillo Dorfles e ha scritto chiunque abbia tentato di applicarsi al tema, è una convenzione di limitata durata temporale, e si è evoluto per forzature e limitazioni spesso mal accette, mentre la gente andava riempiendo le proprie case di mobili laccati in foglia d’oro e vestendosi di rosso, verde e viola appena poteva permetterselo, fregandosene cioè delle convenzioni borghesi, che in fin dei conti sono solo imitazione di modi presuntamente altolocati dei quali, in genere, si ignorano i fondamentali.
Tra chi bazzica il Teatro alla Scala, ho effettuato un sondaggio per verificare che quella mia prima impressione non fosse peregrina, identifica il preciso momento in cui il kitsch è tornato ad affacciarsi nelle nostre vite milanesi ipervaccinate e ossessionate dalla bienséance e dalle furlane blu nel momento in cui, alla prima di “Turandot” nella regia di Davide Livermore, l’opera più rappresentata dell’anno perché nessuna Manon potrà mai eguagliare l’ultima composizione incompiuta del maestro nel centenario della scomparsa, agli spettatori in platea venne distribuita una candelina di plastica da accendere dopo la trenodia sulla morte di Liù, cioè sulle ultime note vergate da Giacomo Puccini in vita. Voleva essere una replica della celebre sospensione orchestrale di Arturo Toscanini, spesso addizionata di espressioni e battute apocrife, ma a Livermore piace notoriamente calcare la mano e dunque, sul palcoscenico già accessoriato all’inverosimile, si illuminò il grande disco sospeso, che fa sempre oriente e che in questo caso serviva a punteggiare cromaticamente i momenti patetici, e comparve appunto la scritta “qui Giacomo Puccini morì”, opportunamente replicata in inglese sugli schermi luminosi alloggiati nello schienale delle poltrone perché i molti turisti potessero capire, mentre le maschere si sparpagliavano in sala per suggerire l’accensione del lumino, “switch on, switch on the lights”.
Il collega esimio critico lo definì “il moccoletto”, in milanese “il lumìn di mort”, i turisti non capirono niente, ma ovviamente amarono moltissimo “the experience”, abbastanza deliberata da poter assurgere al podio più alto nella scala Richter del kitsch che è il camp. L’oggetto nella sua scatolina con la data di nascita e di morte del maestro impressa nella greca déco in rosso era così terribile che disfarsene sarebbe stato un delitto, per cui l’ho infilato nel cassettino a scomparsa di un mobile della bisnonna, un giorno qualcuno la troverà e magari scriverà qualcosa su quanto fosse sentimentale e cafone il pubblico del 2024, esattamente come io ho faticato a liberarmi di certe raccapriccianti savonarole umbertine con i gargoyle scolpiti sui braccioli e mi sono rigirata a lungo una trouvaille sul fondo di un armadio, un vuota tasche dell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, quella che celebrava l’apertura del traforo del Sempione, col manifesto fissato a caldo sulla ceramica: poi direte che quella era arte del grande Leopoldo Metlicovitz e questo un lumino di plastica da due euro la coppia, il terzo regalato per illuminare la zucca di Halloween, epperò si potrebbe discutere anche sul dio Mercurio tinto di rosso e accucciato a guardar fuori dal traforo con il casco provvisto di alucce come Asterix.
Essendo vitale e chiassoso, il kitsch tende a vincere e a imporsi sul rigore e l’ascetismo che emanano sempre un certo sentore di morte, basti vedere la gioia con la quale i milanesi della suddetta buona creanza stanno affollando la mostra dedicata a Elio Fiorucci alla Triennale nell’allestimento filologicamente incasinato del bravissimo regista Fabio Cherstich, nato quando la celebre bottega di Galleria Passarella, il primo concept store italiano, aveva già superato i suoi anni migliori, ma in tutta evidenza ben conscio dell’eccitazione che trasmetteva quell’accumulo di oggetti di plastica, di poster, di catenine e di jeans sexy mentre si respirava un profumo di lecca lecca alla fragola che non ho più ritrovato ma che potrei riconoscere ancora fra mille, mezzo secolo dopo. Ci sono espressioni del kitsch che travalicano gli anni e le epoche, i nanetti da giardino che piacciono a tutti ma che tutti ufficialmente esecrano e infatti, da due giorni, data di apertura della mostra, gli account dei designer di moda si sono popolati dei nanetti dell’epoca già post-fiorucciana, gli anni “love therapy”, con palpabile entusiasmo: averli accolti in un museo, come gli sgabelli primi anni Duemila di Philippe Starck, ha dato loro quella patente di cultura senza la quale pochi dei sudditi della solita bienséance si avventurano ad affermare alcunché.
Gli studi più accreditati attorno al kitsch, materia di etimologia oscura e natura inafferrabile come scrisse qualche anno fa Stefano Salis sul domenicale del Sole 24 Ore dopo aver letto un numero monografico della rivista culturale “Riga” “uscendone con la testa ancora più frastornata”, ne stabiliscono una data di nascita convenzionale, un po’ come il 1951 per la moda italiana, che è l’epoca di costruzione di Neuschwanstein, il castello para-gotico concepito da re Ludwig II di Baviera che, come noto, era ossessionato da Richard Wagner in reciprocità, sul quale venne modellato anche quello del cartoon della “Bella addormentata” e di ogni parco divertimenti disneyano, il che spiega perfettamente anche la tendenza fantasy, modello videogioco e nebbie di Avalon, sulla quale va modellandosi l’estetica kitsch dell’ultimo periodo, al tempo stesso simbolica e didascalica come i giganti Fafner e Fasolt con i trampoli e la testona di cartapesta sulle spalle dell’ultimo allestimento, sempre scaligero, del “Rheingold” a firma di David McVicar, dove i mirabili costumi di ispirazione elisabettiana, scesi in pratica dal “Ditchey portrait” e quindi immersi nella tradizione teatrale nipponica, dialogo perfetto, si perdevano fra le molte sollecitazioni visive che il popolo milanese, erede di Luca Ronconi anche senza averlo mai visto, per asse ereditario diciamo, trova sempre troppo carico, e che ha sonoramente fischiato, bastandogli, come diceva all’uscita, quella scala verso il Walhall piazzata in mezzo alla scena. Erano una presa per i fondelli ideata dal regista che rifaceva il verso al minimalismo teatrale dei Cinquanta-Settanta, ma non se ne sono accorti. I turisti e gli stranieri, americani soprattutto, ne sono usciti estasiati. Il fatto è che il kitsch tende a vincere non solo contro il minimalismo, ma anche contro le ideologie, nello spettacolo, ma anche nella politica. Dura ammetterlo, il kitsch vince sempre.
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