LaPresse

Sopravvivere a Trump. Così il nuovo presidente ha scippato “l'energia del cambiamento”

Paola Peduzzi

Il Partito democratico è diventato cieco, Trump e Musk sono diventati cool, ci aspetta uno “sconvolgimento tremendo”, ci dice James Bennet dell’Economist. Diario post elettorale su un’auto scassata e in un mondo democratico che s’è ristretto

Non si parte mai dal tassista, ma questa volta devo: dopo la notte elettorale alla Howard University, dove era prevista la festa di Kamala Harris ma lei non si è presentata, sono salita su un taxi piccolo e scassato, guidato da un signore gentile che ascoltava la radio e che ha chiesto: ha vinto davvero Trump? Ho confermato funerea, e lui festoso: sono contento, l’ho votato. Sudanese, arrivato in America quando il presidente era Jimmy Carter, vengo da un paese poverissimo ma qui per quelli come me c’era una povertà peggiore, escludente, dice, e raccontandosi e spiegando il suo voto pare di sentire Reagan, il merito contro gli aiuti a pioggia (“la gente è pigra”), gli stimoli alle grandi aziende e ai manager che così poi arrivano anche a me che guido un’auto a pagamento, e infine: sono un cittadino americano, non soltanto un immigrato sudanese di seconda generazione. Io farfuglio qualcosa sull’Amministrazione Biden, il suo New Deal, l’economia stellare che tutti noi invidiamo, dico che il trumpismo è egoista oltre che fantasioso ed eversivo, ma la conversazione è già finita. Ha vinto Trump e sul taxi con i finestrini abbassati nel cuore della notte ho sentito le parole chiave della sua vittoria: economia, immigrazione, pace. 

 

Prendi la working class, mi dice James Bennet, senior editor dell’Economist e autore di Lexington, la rubrica americana, con la sua voce calda da narratore: “Non si sente più capita dal Partito democratico americano, e sì che c’è da sempre un rapporto storico stretto, questo è il bacino elettorale della sinistra, ma se n’è andato” verso Trump. Prendi gli ispanici: “Le politiche identitarie hanno alienato molti elettori, gli ispanici, anche loro elettori storici del Partito democratico, se ne sono andati, per molte ragioni ma anche, per dirne una, perché non comprendevano la fissazione dei democratici sulla parola ‘latinx’”, dice Bennet. “Latinx” è il termine inclusivo che indica gli americani di origini ispanica – “ispanico” è considerato un termine colonialista, quindi si è iniziato a dire latinos – senza fare distinzioni di genere e comprendere tutti, latinas e latinos. Fin da quando è stato introdotto ormai qualche anno fa, ci sono state delle perplessità nella comunità ispanica, alcuni lo usavano altri no, per lo più lo consideravano innocuo, al limite stupido, ma poi è arrivata la strumentalizzazione politica, la battaglia culturale sulla lingua e “latinx” è diventato un termine woke, il suo utilizzo non è più stato politicamente neutro. Come accade con molte di queste discussioni linguistiche, è finita che gli ispanici si sono stufati del partito che lottava per una “x” non discriminante e non per abbassare l’inflazione e hanno votato quell’altro, cioè Trump.  

 

Non c’è segmento elettorale storicamente di sinistra che non abbia subìto qualche colpo durante queste elezioni, persino negli stati blu i risultati di Kamala Harris sono stati più deludenti di quelli del 2020 di Joe Biden, con collassi storici, come nello stato di New York (i democratici non andavano così male dal 1988), anzi a ben vedere è negli stati in bilico percorsi e ripercorsi durante la campagna che si sono ottenuti i risultati migliori. L’America si è spostata tutta a destra, fanno eccezione soltanto le donne over 45, bianche, ricche e istruite. Bennet definisce con tre aggettivi la vittoria trumpiana: “Trasformativa, schiacciante, avvilente”. 

Secondo Bennet, Harris ha meno colpe di altri nella sconfitta, “lei era consapevole delle debolezze strutturali dei democratici e ha cercato in qualche modo di aggiustarle, ma non ha avuto tempo per risolvere granché”.  E “Trump ha fatto di tutto per rinfacciarle le sue posizioni di quando si era candidata alle primarie del 2020, che erano molto più radicali di quelle di adesso”. Per Bennet la responsabilità originaria è di Joe Biden, che non avrebbe dovuto candidarsi per il secondo mandato, che avrebbe dovuto avviare le primarie per permettere la selezione di un candidato con una legittimazione maggiore e la possibilità “di fare un tentativo credibile per riprendere contatto con le preoccupazioni degli americani: l’economia, l’inflazione, l’immigrazione illegale”.

 

Ma cosa intendiamo per credibile? Nell’ora della resa dei conti, la colpa è sempre degli altri: il team di Biden contro quello di Harris, i moderati verso i radicali. Bennet dice che da anni il Partito democratico ha perso il contatto con la realtà del paese, che si è fatto delle idee errate sulle priorità del suo elettorato, poi fa un passo indietro e torna a Barack Obama: “Durante la sua presidenza, molti nella sinistra del partito non erano contenti di Obama, principalmente perché lui era duro nella gestione degli immigrati illegali: lo chiamavano il ‘deportatore in chief’. L’ex presidente aveva compreso il potere politico di questa questione, sapeva che l’ingresso dei migranti non poteva andare fuori controllo. Poi è successa un’altra cosa: allora, il consenso sull’immigrazione legale era grande e trasversale, lo sanno tutti che questo paese vive grazie agli immigrati. Ma nel momento in cui l’immigrazione illegale è sì andata fuori controllo, la frustrazione è cresciuta così tanto che oggi la maggioranza degli americani non vuole più nemmeno l’immigrazione legale, tollera e spesso condivide la retorica oscena delle deportazioni, e questa è la conseguenza del non aver fatto nulla per governare i confini. Perché Biden non si è reso conto di quanto fosse grande l’effetto delle migliaia di illegali che attraversavano la frontiera? Perché era spaventato dalla sinistra del Partito democratico, che difendeva l’immigrazione illegale, e non voleva rischiare di subire la rabbia dell’ala attivista: è questo l’errore più grande”.

 

Quando Bennet parla dell’indignazione costante di parte dei democratici  – la stessa che considera offensivo e ignorante votare un delinquente fascista come Trump, la stessa che accusa gli elettori di aver votato “male” il 5 novembre, senza accorgersi delle proprie responsabilità  – e della “cecità” di un partito che si è visto rubare sotto il naso il suo elettorato di sempre, non posso non chiedergli se è proprio questo approccio ad avergli fatto perdere il lavoro che aveva al New York Times. Nel 2020, Bennet era il responsabile delle pagine degli editoriali del quotidiano in cui aveva lavorato per vent’anni, anche come corrispondente da Gerusalemme (si era staccato qualche anno per fare il direttore dell’Atlantic, poi era tornato), e decise di pubblicare un articolo scritto dal senatore Tom Cotton, che è repubblicano e che invitava a utilizzare l’esercito per ristabilire l’ordine nelle strade e per contrastare gli antifà che, secondo lui, si erano infiltrati nelle manifestazioni contro il razzismo. Quell’estate era stato ucciso da un agente della polizia George Floyd, un afroamericano soffocato in mezzo alla strada dal ginocchio del poliziotto, le sue implorazioni, “non riesco a respirare”, immortalate in un video senza il quale probabilmente l’agente non sarebbe poi stato condannato. Le proteste erano ovunque, potenti e indefesse, l’Amministrazione Trump voleva mandare l’esercito per sedarle, la piazza non si ritirava e anzi si ampliava, fino poi a radicalizzarsi mobilitandosi per la campagna “defund the police” che appariva sciaguratamente rivoluzionaria e che oggi, guardando indietro, è una delle ragioni per cui molti elettori sono scappati dai democratici. L’America già a brandelli in quei mesi si stava sfilacciando ancora di più, così la decisione di Bennet di ospitare l’intervento di un senatore repubblicano che invitava il governo a mandare le truppe per evitare i saccheggi scatenò una rivolta interna al giornale che si riversò su Twitter. Inizialmente Bennet difese la sua scelta così come lo fece l’editore, ma poi le pressioni si fecero insostenibili, molti giornalisti dicevano che si sentivano “in pericolo” a causa dell’editoriale, e Bennet si dimise.

Oggi mi dice che non vuole più parlare del Times – ci ha messo molto tempo, ha spiegato in un’altra intervista, a riprendersi dal fatto che molte delle persone che lavoravano con lui da anni lo trattassero come “un fascista incompetente” – ma dice che la cecità è rimasta, che l’eccessiva suscettibilità “crea una disconnessione con la realtà del paese così profonda che non ti accorgi di una cosa semplice come la preoccupazione per l’inflazione”. In un lungo articolo pubblicato due anni dopo sull’Economist, la sua nuova famiglia dopo la rottura con il giornale della sua vita, Bennet ha scritto: “Credo che molti che lavorano al New York Times non abbiano idea di quanto si sia ristretto il loro mondo né di quanto siano distanti dal patto con i lettori che prevede di raccontare il mondo ‘senza paura e senza favori’. A volte il pregiudizio è stato esplicito: il responsabile di un’altra sezione mi ha detto che siccome io pubblicavo più interventi conservatori lui sentiva il bisogno di spingere le sue pagine più a sinistra. Il problema del New York Times è passato dal pregiudizio liberal al pregiudizio illiberale, dall’inclinazione a favorire una parte del dibattito all’impulso di spegnere del tutto il dibattito”.

 

Il mondo della sinistra s’è ristretto: potrebbe essere la didascalia sotto la mappa elettorale americana dopo il 5 novembre. “Allora come oggi penso che sia necessario comprendere perché le persone e i politici hanno le idee che hanno: bisogna parlarci, litigarci, sfidarsi, l’intolleranza prende troppo spesso il sopravvento”, dice Bennet, che  è preoccupato di quel che può succedere all’America e al mondo con un secondo mandato di Trump: teme per il dipartimento della Giustizia cui il presidente eletto ha detto di voler togliere l’indipendenza; teme per la Corte suprema vista la salute precaria della giudice Sonia Sotomayor e le altre possibili nomine; teme per l’Ucraina, per Taiwan, alleati la cui sopravvivenza dipende dall’affidabilità degli Stati Uniti. 

Il suo elenco continua, finiamo per parlare dell’euforia dei mercati, dei manager, degli imprenditori e dei miliardari per la vittoria di Trump – “è per via della riforma fiscale e dell’abbassamento delle tasse”, la promessa cruciale ancorché forse fantasiosa – e inevitabilmente esce il nome di Elon Musk, il proprietario di quell’ex Twitter “che ha un potere e un’influenza enorme sui politici e sui media”, nonché l’uomo più ricco del mondo. Non è soltanto una questione di soldi e di influenza – cose che pure hanno un rilievo: ne scopriremo la portata quando si capirà che ruolo avrà Musk nella nuova Amministrazione – siamo di fronte a una trasformazione culturale, che Bennet sintetizza così: “Ora sono Trump e Musk quelli cool”. Ci sono due parole che mi hanno colpito nelle analisi sulla vittoria di Trump: la prima è “disciplina”, riferita alla campagna elettorale trumpiana, sempre descritta come un caos di liti, di frasi razziste, di un candidato indemoniato oltre che eversivo. 

Invece la disciplina –  che sembra sia stata infine imposta da Susie Wiles, che era a capo del comitato elettorale e che sarà chief of staff di Trump alla Casa Bianca – ha fatto sì che il messaggio più concreto, ridurre l’inflazione, controllare l’immigrazione e mettere fine alle guerre, sia passato chiaro e convincente. La seconda parola è quella che dice Bennet, “coolness”, che lui spiega così: “Il cappellino Make America Great Again che a lungo è sembrato il simbolo di una minoranza di fanatici è diventato cool perché non è più  soltanto l’espressione di una rivendicazione, ma di una sfida allo status quo e a un establishment cieco. La proposta di cambiamento che era il fondamento della rivoluzione obamiana sedici anni dopo non viene più legata ai democratici ma agli outsider repubblicani, a Musk e a Trump, i trasgressivi che però hanno un piano per l’America. Ora sono loro quelli cool, e certo c’è stata una manipolazione e una strumentalizzazione di molte questioni culturali, ma i rivoluzionari, quindi quelli fighi, sono loro, sono loro quelli che hanno l’energia del cambiamento. E’ per questo che dico che è stata un’elezione che ha cambiato tutto”. 

Il Partito democratico è diventato cieco, il Partito repubblicano è diventato cool, l’America è stata riscritta in una notte elettorale, e ci sembra capovolta. “Molti non amano Trump, non è mai stato un leader popolare perché ha sempre investito più sulle divisioni del paese che sulla possibilità necessaria di una riconciliazione – dice Bennet – Ma al momento del voto, Harris e il Partito democratico sono risultati peggiori di lui”. Ci aspetta uno “sconvolgimento tremendo”, le prime decisioni di Trump sul suo team di fedelissimi rivelano che le sue priorità non sono cambiate: l’allarme democratico non è stato compreso, ma c’è. Per i democratici, sedimentati l’amarezza e il regolamento di conti, si apre la stagione della ricostruzione. C’è chi ricorda che dopo Carter ci fu Bill Clinton: il luccichio degli anni Novanta è sempre un buon calmante. Ma “l’ansia americana”, come la chiama Bennet, non si cura guardando indietro, piuttosto cominciando a levarsi il filtro identitario – il tassista sudanese direbbe: sono prima di tutto un cittadino americano –  a recuperare l’unica grande (e dolorosissima) frattura del paese, che è quella delle classi sociali, e a combattere il trumpismo nel merito delle sue politiche: che sia un delinquente estremista e menzognero non ha rilevato. Nel suo articolo del 2022 in cui spiegava quel che aveva capito dell’informazione, dei pregiudizi, della sua fuoriuscita dal New York Times e di Trump, Bennet scriveva: “Alcuni giorni mi sembrava di essere stato paracadutato in una di quelle isole del Pacifico ancora occupate dai soldati giapponesi che non sapevano che il mondo oltre le loro onde era cambiato”. S’è capovolto, s’è ristretto.

 

Di più su questi argomenti:
  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi