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intelligenza artificiale

Dalle playlist alla creatività. Qualche dubbio sull'AI in musica

Mario Leone

Secondo il compositore Traik o'Regan abbiamo demandato tutto a un algortimo e la pigrizia di tante istituzioni pensa di poter risolvere i problemi e trovare nuove vie affidandosi solo alla tecnologia. Ma non è così: c’è bisogno di rimettere davanti a tutto la complessità come via per la riscoperta del bello.

È un’assolata mattina di giugno. Il compositore Tarik O’Regan è impegnato in una serie di interviste per un documentario della Bbc Radio 3 sul rapporto AI-musica classica. I dati dicono che, con il passare del tempo e con il perfezionarsi di alcuni algoritmi, tutti quelli che lavorano nel mondo “creativo” saranno sostituiti dall’AI. Una provocazione, nemmeno troppo, quanto basta per interrogare il compositore e spingerlo a un’acuta riflessione sulle colonne del Guardian. Il ragionamento di O’Regan parte da una constatazione: “Siamo passati rapidamente – ha detto – dall’interrogarci su come l’intelligenza artificiale potesse aiutare le industrie creative, al constatare che ogni ruolo sarà sostituito proprio dall’intelligenza artificiale, senza nemmeno chiederci quali possano essere i rischi per la tutela dell’originalità delle opere, per i posti di lavoro, per non parlare del consenso degli utenti”.

   

Secondo O’Regan, ormai abbiamo demandato tutto a un algoritmo: ci “consigliano” cosa comprare, dove andare e chi incontrare. Anche la musica, quella delle playlist preconfezionate più vicine ai gusti dell’utente o quelle a tema per correre e rilassarsi. Ora il livello si è alzato e si punta direttamente alla fonte: intervenire sulle composizioni, svuotando di senso e utilità la figura del compositore, sostituito da una tecnologia che si presume (erroneamente) lo faccia meglio, più velocemente, ma soprattutto rispondendo adeguatamente alle esigenze dell’ascoltatore. Dello stesso parere è il mezzosoprano Katia Ledoux che da tempo ha definito “molto sbagliato” che professionisti e compagnie d’opera sostituiscano il lavoro di fotografi e illustratori con contenuti generati dall’intelligenza artificiale, sostenendo che la tecnologia minaccia i mezzi di sussistenza degli artisti, comporta elevati costi ambientali e rischia di diffondere “disinformazione visiva”.

     

Tutto questo sta avvenendo con il benestare delle grandi istituzioni musicali, come dimostrano le parole di Oliver Mears, direttore artistico della Royal Ballet Opera, nel presentare il festival “RBO/Shift”, una manifestazione che, in questa prima edizione (nel 2026), esplorerà fino a che punto l’intelligenza artificiale possa spingersi nel ridefinire i confini dell’opera. “L’intelligenza artificiale è qui per restare – dice Mears – possiamo nascondere la testa sotto la sabbia o cavalcare l’onda”. Quello che denuncia O’Regan è la pigrizia di tante istituzioni che pensano di poter risolvere i problemi e trovare nuove e geniali vie, semplicemente affidandosi alla tecnologia, convinte che restituiscano magicamente pubblico e soldi. Non è così: servono idee, progetti a lungo termine, un utilizzo virtuoso delle risorse e la capacità di rischiare, senza considerare il pubblico un manipolo di incompetenti. C’è bisogno di rimettere davanti a tutto la complessità come via per la riscoperta del bello. L’AI è una scorciatoia che potrà essere utilizzata per molte cose ma non per l’atto creativo, quell’insieme di intuizione, condizioni spazio-temporali, sedimenti di una vita capaci di generare nuova arte.

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