James Ellroy (foto Epa, via Ansa)
Ellroy confidential. Intervista allo scrittore americano
Ama trascinare i lettori nei suoi “luoghi oscuri”. Dice che la letteratura gli ha salvato la vita, “anche quando divoravo libri per scoprire il sesso”. Crede “nella musicalità delle parole, nel ritmo delle frasi”
"Sono l’autore di venti libri, tutti capolavori. E precedono i miei futuri capolavori. Questi libri vi lasceranno sconvolti, lavati a vapore e a secco, ripiegati, messi in un angolo, fidelizzati, tatuati e sfanculati. Questi libri sono per l’intera fottuta famiglia, se il nome della vostra famiglia è Manson”. In pubblico si presenta così, James Ellroy, e non scherza affatto: è consapevole di avere un talento folgorante, e ama trascinare i lettori nel suo mondo di tenebra o, per dirlo con le sue parole, nei suoi “luoghi oscuri”. Del resto, l’incipit della sua presentazione è: “Buona sera guardoni, furfanti, pederasti, annusatori di mutande, punk e magnaccia. Sono James Ellroy, il cane infernale, il gufo pazzo con il rantolo della morte, il cavaliere bianco della destra estrema, il trucco perfetto con il pene di un asino”.
Il buio lo ha conosciuto sin da bambino, e ora non ne può più fare a meno, così come non sa rinunciare al suo personaggio maledetto e ossessivo: le abbraccia strette, le tenebre, perché è convinto che siano l’unica realtà dell’esistenza, e che la luce sia la più menzognera delle illusioni. Come illusoria è l’idea che il suo paese abbia mai avuto un’età dell’innocenza: “L’America non è mai stata innocente”, teorizza. “Abbiamo perso la verginità sulla barca che ci ha portati qui e ci siamo guardati indietro senza rimpianti. Non puoi attribuire la nostra caduta dalla grazia a un singolo evento o una circostanza. Non puoi perdere quello che ti mancava nel momento del concepimento”.
L’ho conosciuto trent’anni fa, quando viveva in una villa in Connecticut arredata solo da stampe di pesci affisse a testa in su e un busto di Beethoven, musicista che venera e del quale si considera l’equivalente in letteratura. Alla Festa del Cinema di Roma è stato presentato Ellroy vs LA, il bellissimo documentario di Francesco Zippel che ne celebra il talento tormentato, partendo dal rapporto di odio e amore che ha nei confronti della sua città.
E’ felice di parlare di questa esperienza, ma puntualizza: “Non l’ho visto, non vedo mai nulla che mi riguarda”.
Ha dato delle indicazioni al regista?
No, nessuna, massima libertà: mi sono sentito subito a mio agio, e questo non è mai scontato. Avevo avuto negli stessi giorni una richiesta da una regista francese ma ho scelto lui. In un primo momento perché mi era sembrato molto educato, ma poi mi ha impressionato favorevolmente il fatto che non facesse le tre domande standard dalle quali sono perseguitato: 1) cosa pensa della versione cinematografica di LA Confidential? 2) mi parli dell’omicidio si sua madre. 3) quali sono le sue opinioni politiche?
Cercherò anch’io di attenermi a queste indicazioni.
Grazie, e per passare avanti le dico velocemente: 1) Penso tutto il male possibile del film LA Confidential, ma Dalia nera è ancora peggio. 2) Ho scritto un intero libro sull’argomento: se siete interessati, leggete "I miei luoghi oscuri". 3) Non ho pregiudizi né illusioni. E non dico cosa voto perché mi piace fregare il pubblico.
Cosa significa raccontarsi in un documentario rispetto ai suoi libri?
Devo trovare un codice diverso. A questo riguardo noto una grande differenza tra il modo in cui sono ascoltato in Europa rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti.
Cosa intende?
Gli europei sono i migliori lettori del mondo, e questo mi stimola a dare il meglio anche quando parlo. Rimango sempre molto colpito quando vedo nei miei interlocutori europei un atteggiamento di venerazione, sento un amore e un rispetto che prescinde dal sottoscritto: è l’amore per la cultura e per l’arte. Ogni volta che parlo con un europeo vado con il pensiero al periodo in cui ho iniziato a leggere, anche quando nel mio interlocutore subentra il rischio dell’intellettualismo: da questo punto di vista preferisco gli americani, anche per il modo in cui valorizzano i generi. La letteratura mi ha salvato la vita, anche quando non me ne rendevo conto e lo facevo per puro divertimento. Ad esempio quando leggevo i romanzi di Irving Wallace o divoravo libri per scoprire il sesso.
Come è nato lo stile sincopato dei suoi romanzi?
Quando consegnai il manoscritto di LA Confidential il mio editore mi chiese di eliminare alcuni episodi marginali per un totale di un centinaio di pagine. Io invece decisi di tagliare da ogni frase le parole che mi sembravano superflue. In un primo momento sono rimasti sconcertati, forse anche irritati, poi si sono resi conto che grazie a come avevo stravolto la loro indicazione avevo creato qualcosa di completamente nuovo e molto musicale.
Qual è la sua opinione sui due grandi maestri dell’Hard Boiled School, Dashiel Hammett e Raymond Chandler?
Ammiro il primo e detesto il secondo: Hammett era realmente vicino ai personaggi che immortalava, mentre per Chandler si trattava di una costruzione letteraria, e questo spegne in me ogni possibile interesse. Hammett è autentico, Chandler artificiale: molti ne apprezzano lo stile, ma per me rimane un abusivo, e gli preferisco Ross MacDonald, ossessionato come me dalle donne. E’ uno scrittore sottovalutato, che purtroppo non è stato mai letterariamente disciplinato.
Qual è la sua definizione di noir?
Nella prima pagina sono tutti fottuti, poi le cose peggiorano.
Che cosa pensa dei noir non americani?
Sinceramente non li conosco, ma devo essere sincero: faccio una gran fatica a immaginare un noir che non sia ambientato a Los Angeles.
Lei ha un rapporto di amore e odio nei confronti della sua città.
Molto spesso non la sopporto, ma non saprei farne a meno. Amo il fatto che è giovane e che sembra una facciata con dietro nulla. Amo il suo clima, il fatto che si estende tra il deserto e il mare, e amo i personaggi che la abitano, completamente presi dalla loro immagine. Ma nello stesso tempo la odio per quegli stessi motivi, rovesciati.
Los Angeles è soprattutto Hollywood.
E anche in questo caso provo amore e odio.
Per il cinema o per il suo ambiente?
Per il suo ambiente: un mondo di fasulli, ipocriti, magnaccia e prostitute di entrambi i sessi. Il cinema lo amo in maniera viscerale, ma mi riferisco ai film.
In "Panico" ha raccontato una scena in cui l’investigatore privato Freddy Otash organizza una visione privata di filmini erotici di gente famosa per un pubblico composto da Liz Taylor, Ronald Reagan, Rock Hudson e Jean Paul Sartre, mentre Charlie Parker sniffa cocaina e James Dean si masturba. Si tratta di una scena vera o inventata?
Domanda sbagliata: a me interessa solo se la scena funziona.
Freddy Otash era un personaggio torbido realmente esistito che compare ripetutamente nei suoi libri: perché è così interessato a lui?
Perché rappresenta perfettamente i lati oscuri di Los Angeles e perché era dedito a droghe e alcool come me. Quindi rappresenta anche i miei lati oscuri.
Perché detesta James Dean?
Perché trattava la gente dall’alto in basso, facendo credere che fosse lui la vittima. Ma il suo regista Nick Ray era ancora peggio.
In che senso?
Ha abusato sessualmente di due minorenni: Sal Mineo e Nathalie Wood. A lui non importava di che genere fossero. Per me era un criminale, e non mi importa nulla cosa pensino di lui i francesi che si riempiono la bocca con la teoria dell’autore. Era uno stronzo la cui reputazione si è avvantaggiata dal fatto che era comunista, cosa che in Europa all’epoca rappresentava un elemento positivo.
Come regista le piace?
C’è di meglio.
Qual è secondo lei, il più grande film americano?
Molti risponderebbero Quarto Potere di Orson Welles, ma secondo me ce n’è uno ancora più grande: Nashville, di Robert Altman.
Cos’è che le piace di quel film?
E’ un capolavoro assoluto nel quale la musica ha un ruolo fondamentale, che trascende la colonna sonora. Altman riesce a immortalare l’America come nessuno: nella sua follia, la sua ingenuità, la sua purezza, il suo intimo spirito individualista e anarchico. E anche la sua violenza, la volontà di ribellarsi e lo sgomento di fronte ai tradimenti del potere. Non dimenticare che è stato realizzato subito dopo lo scandalo Watergate.
Quale è il suo parere su Richard Nixon?
Una figura tragica: grande in politica estera e sottovalutato in quella interna, ma anche un uomo autodistruttivo, e non lo dico perché beveva molto, c’era qualcosa di profondo e irrisolto. Era un uomo pieno di complessi fisici e sociali, ed era l’opposto del politico moderno dedito all’immagine. La sua era terribile: era goffo al punto da essere spesso ridicolo ed era evidente la sua grande e perenne frustrazione. Tuttavia aveva un cervello notevole, e questo accentua la tragicità della sua caduta. Non bisogna dimenticare che proveniva da una famiglia di poveri agricoltori, il padre coltivava limoni. Nixon era un vero self made man ed è un’ingiustizia della storia che oggi sia ricordato soprattutto per il Watergate: uno scandalo in fondo minore, che lui ha gestito malissimo. Detto questo chiunque pensi che la politica non sia un crimine ha qualche rotella che non gli funziona.
La politica è sempre sporca?
Non più di quanto lo sia la vita.
Lei non ha mai amato invece Kennedy.
Affatto, e meno che mai il mito che continua a perdurare. La trinità di Camelot non era altro che: proietta un’immagine bella, bacia il culo e fotti. E di quel mondo detesto anche il mito di Marilyn Monroe, a mio avviso anche un’attrice molto mediocre.
Un’accusa che le viene fatta ripetutamente è quella di misoginia.
Sono il figlio di una donna uccisa, queste stronzate sono messe in giro da chi non conosce né me né i mei romanzi. Chiunque definisce i miei libri misogini è francamente fuori di testa. Per me sulla terra non esiste altra ragione per cui vale la pena di vivere se non le donne, è il motivo per cui mi alzo dal letto ogni mattina. Chi detesto veramente sono gli uomini che utilizzano il potere per portarsele a letto. Bill Clinton, tanto per fare un nome: non è certamente l’unico presidente che lo ha fatto, ma lui ha l’aggravante della menzogna.
Lei ha dichiarato che fortunatamente non fa politica perché ha tendenze demagogiche.
Sono sempre stato un buono a nulla, tranne che a scrivere e parlare: ho fallito come corridore, come pugile e in assoluto come atleta, ma so come conquisto il pubblico quando parlo e i lettori quando scrivo. Quindi sarei pericoloso.
Lei attribuisce un’importanza fondamentale allo stile: ritiene che il linguaggio delle immagini abbia cambiato quello della parola scritta?
Non lo so e non mi interessa. Per quanto mi riguarda attingo da tutto, anche dal jazz. Credo nella musicalità delle parole, nel ritmo delle frasi, persino in quello dei titoli.
I suoi titoli sono magnifici, infatti: American Tabloid, Perché la notte, Il grande nulla, I miei lati oscuri, LA Confidential e poi il mio preferito: Sangue sulla Luna.
A me interessa evocare subito qualcosa che rimane impresso nello spettatore. Pensi per un attimo all’idea del sangue che arriva sino alla luna…
Lei parla spesso di redenzione e peccato: crede in Dio?
Si, certo, vado in chiesa, prego e chi sa leggere capisce che i miei libri sono religiosi.
Prega utilizzando le formule classiche o con parole sue?
In entrambi i modi.
Come concilia la sua fede con il pessimismo?
Cristo è sceso sulla terra perché sa che il mondo è una fogna. E specialmente in America alla fine è sempre e soltanto questione di denaro, il grande equalizzatore e comune denominatore. Il Dio americano è il denaro.
Da giovane ha fatto uso di alcool e droghe: come ricorda quel periodo?
E’ legato certamente al trauma dell’omicidio di mia madre. Soffrivo di una grave forma di depressione e consumavo la benzedrina. Sono finito ripetutamente in carcere per furto e per me era facile non pensare al mio futuro: per dirla in breve, io non ne avevo. E non avevo neanche una casa, mi mantenevo facendo il caddie. Quei ricconi che giocavano a golf mi pagavano in contanti in nero, e alle due del pomeriggio finivo di lavorare e potevo dedicarmi alla scrittura.
Che ricordo ha dei suoi genitori?
Mio padre Armand era il ragioniere di attori di serie B: il momento più glorioso della sua carriera è stato quando venne chiamato da Rita Hayworth per gestire i suoi conti. Mia madre Geneva era un’infermiera, che beveva troppo, parlava in maniera sboccata e non sapeva selezionare le persone che frequentava. Quando è stata uccisa avevo dieci anni e sono stato allevato da mio padre, che a sua volta beveva troppo. Devo a lui la scoperta del noir quando mi ha regalato il libro The Badge, dove ho scoperto la storia di Elizabeth Short, la Dalia nera.
Cosa la ha affascinato di quel delitto efferato, al punto da scriverne un romanzo?
Ancora una volta l’anima torbida di Los Angeles. E’ una vicenda che parte dal sogno di una ragazza di diventare una star e finisce con il suo corpo trovato in un parco segato in due parti.
Le faccio solo una domanda sugli adattamenti dai suoi libri: se è così disgustato dai risultati perché continua a cedere i diritti?
Che domande: perché mi pagano bene per un lavoro già fatto.
Il prossimo marzo compirà 78 anni: come vive la sua vecchiaia?
Con la volontà di vivere un grande e potente terzo atto.