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Kafka, Dickinson, Gauguin, Wilde. Cime incomprese

Stefano Picciano

Molti di coloro che oggi consideriamo i grandi nomi dell’arte e della letteratura videro spesso, nel corso della loro esistenza, esigui successi e reiterata indifferenza. Tele, versi, spartiti. Quante opere hanno avuto bisogno di anni per farsi apprezzare

"Cinque o sei pazzoidi (…) si sono riuniti per esporre le loro opere. Ho visto gente torcersi dalle risa davanti a quei lavori, ma a me, vedendoli, ha sanguinato il cuore. Questi sedicenti artisti (…) prendono un pezzo di tela, colori e pennello, vi buttano qualche tratto di colore a casaccio e firmano il risultato con il loro nome”. Così, nel 1876, si scriveva in un settimanale francese riguardo ai quadri appena esposti da alcuni pittori negli spazi del gallerista Paul Durand Ruel, a Parigi. E’ la circostanza, più volte ricorrente nella storia, di opere che fecero scalpore al punto da essere aspramente criticate, rifiutate, persino derise. Quell’esposizione, realizzata centocinquanta anni fa, proponeva per la seconda volta – dopo il discusso debutto presso lo studio del fotografo Nadar – le rivoluzionarie tele di una nuova corrente pittorica. Fu l’irrompere di qualcosa di inedito, che il pubblico non era pronto ad accogliere: la mancanza del disegno, il carattere indefinito, l’assenza di quell’equilibrio formale che era considerato requisito fondamentale della bellezza. Come scrive Ernst Gombrich, “fu questa mancanza di rifinitura, questa tecnica sommaria a far perdere le staffe ai critici. (…) A un secolo di distanza ci riesce arduo capire perché questi quadri destassero una tale tempesta di derisione e indignazione. Comprendiamo subito che, anche se possono sembrare abbozzi, si tratta del risultato di una profonda esperienza pittorica, e non di trascuratezza”.

 

Era l’intento di rappresentare la realtà senza che l’intelletto mediasse l’impatto tra l’oggetto osservato e la vista, cioè dipingendo le cose così come l’occhio le coglie. Emblematico, in proposito, è il giudizio su un celeberrimo dipinto di Monet pronunciato da un critico che, giocando con il termine impression (la prima mano data dall’imbianchino o addirittura la prima fase di lavorazione del rivestimento delle pareti) sentenziava: “La carta da parati allo stato iniziale è più rifinita di questo paesaggio marino”. Impressionista: l’attributo canzonatorio avrebbe dato il nome ad un’intera corrente pittorica. 

 

 

Ecco dunque la questione: la storia dell’arte è intessuta di apparenti fallimenti che sono in realtà abbrivio verso nuovi orizzonti. Episodi curiosi si hanno nella pittura, nella scultura, nella letteratura e – particolarmente copiosi – nella musica. Era il 1804 quando Beethoven, ormai incamminato verso un linguaggio che inesorabilmente si lasciava alle spalle il Settecento, complice la progressiva sordità (che si sarebbe rivelata non fattore d’impedimento, ma trampolino di lancio verso sviluppi inauditi) completava la sua Terza Sinfonia, detta Eroica, definita da Giorgio Pestelli “musica di incendiaria novità”, che risultò – ne sono prova innumerevoli testimonianze dell’epoca – molto al di là delle possibilità di comprensione del pubblico. I contemporanei non esitarono a percepirvi un “eccesso di frastuono e bizzarria” e molti critici, con sentenze apparentemente indiscutibili, “negavano che il lavoro potesse avere un valore artistico”. Osserva Giacomo Manzoni: “Come sovente accade con tutte le opere rivoluzionarie, questa composizione (…) lasciò sconcertato il pubblico”. Ma non sarebbe stata l’unica opera a suscitare clamore: sempre di più, in quel periodo, nelle pagine di Beethoven si osservava “una tendenza innaturale verso strane modulazioni, una avversione ai tradizionali rapporti di tonalità, un continuo accumularsi di difficoltà”. Così l’allievo Czerny racconta che dopo l’esecuzione pubblica di un Quartetto le persone “erano convinte che Beethoven si burlasse di loro, che scherzasse”, e il compositore stesso avrebbe fissato nei suoi diari una significativa annotazione: “Una futura generazione mi ricompenserà dei torti che ho dovuto sopportare da parte dei miei contemporanei”. Nel maggio del 1824, dopo il concerto che ospitò la prima esecuzione della Nona Sinfonia, un critico scrisse che quella musica – benché il pubblico ne avesse colto con entusiasmo l’inaudita novità – era “incomprensibile come il cinese” e alla replica, due settimane più tardi, la sala non si riempì nemmeno per la metà dei posti.

 

Un allievo racconta che dopo l’esecuzione pubblica di un Quartetto le persone “erano convinte che Beethoven si burlasse di loro”

 

Un salto indietro nel tempo di due secoli ci porta al 1604, anno in cui Caravaggio realizzò la tela nota come La morte della Vergine. Opera che, all’atto della consegna ai committenti, venne immediatamente rifiutata. Troppo spietato realismo, troppo netta rinuncia ad ogni idealizzazione: il corpo gonfio, la postura abbandonata, ritenuta sconveniente (il biografo Giovanni Baglione scrive che l’autore “avea fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con le gambe scoperte”), forse persino le sembianze tratte dal cadavere di una donna in quei giorni affogata nel Tevere. La rappresentazione così icasticamente umana e privata di ogni carattere celeste scandalizzò e generò una subitanea, immediata opposizione. Non fu del resto l’unica sua opera a generare sconcerto, se anche la prima versione di San Matteo e l’angelo ebbe sorte travagliata: nei suoi scritti biografici Giovanni Pietro Bellori osservò che quella figura “non haveva decoro, né aspetto di santo, stando à sedere con le gambe incavalcate, e co’ piedi rozzamente esposti al popolo”, provocando opposizioni non dissimili – per portare un ulteriore caso – da quella destata dalla Madonna dei Pellegrini che, oggi conservata nella chiesa di Sant’Agostino a Roma, fu criticata per l’inaudito realismo delle due figure di spalle, “uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia”. Meraviglia e scandalo suscitò, infine, anche il dipinto dedicato all’Incredulità di San Tommaso, su cui Gombrich riferisce suggestive parole: “Possiamo capire come questa pittura dovesse apparire irriverente e perfino oltraggiosa ai devoti che, abituati ad apostoli dignitosi ed avvolti in mirabili drappeggi, li scorgevano qui nelle vesti di comuni manovali, con le facce provate dalle intemperie e le fronti rugose”. 

 

Troppo spietato realismo, troppo netta rinuncia ad ogni idealizzazione nella “Morte della Vergine” di Caravaggio, rifiutata dai committenti

 

Dal 1804, al 1604; e curiosamente, al 1904. E’ l’anno in cui, nel pieno della Belle Époque, Giacomo Puccini presentò la sua Madame Butterfly in quella prestigiosa e spietata arena che è il Teatro alla Scala, e fin dall’inizio si comprese quanto immiti sarebbero state le reazioni del pubblico. Ne troviamo testimonianza in un’accorata lettera scritta dalla sorella del compositore: “Alle due di notte siamo andati a letto e non posso chiudere occhio. E dire che tutti eravamo tanto sicuri! (…) Il pubblico è stato contrario dal principio. Ce ne siamo accorti subito. Giacomo, poverino, non l’abbiamo mai veduto perché non si poteva andare sul palcoscenico (…). Pubblico schifoso, abietto, villano. Neanche una dimostrazione di stima”. Lo stesso autore avrebbe descritto con toni analoghi quella catastrofica serata a un amico: “Con animo triste ma forte ti dico che fu un vero linciaggio! Non ascoltarono una nota, quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, ubriachi d’odio! Ma la mia Butterfly rimane qual è: l’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito! E avrò la rivincita, vedrai”. Giovanni Pascoli, che per Puccini nutriva grande stima, venendo a sapere dell’accaduto gli fece sentire la sua vicinanza: “Caro nostro e grande Maestro, la farfallina volerà: ha l’ali sparse di polvere, con qualche goccia qua e là, gocce di sangue, gocce di pianto… vola vola farfallina…”. 

 

Reazione non altrettanto fiduciosa aveva avuto, pochi anni prima, Sergej Rachmaninov dopo la presentazione a San Pietroburgo della sua Prima Sinfonia. Era il 1897 e l’esecuzione fu a tal punto avversata dal pubblico che lo stesso autore, avvedutosi della situazione, lasciò la sala prima del termine della serata. Giunse a casa adirato e sfinito a tal punto da mettere da parte il manoscritto (che sarebbe andato perduto durante i moti della rivoluzione e ricostruito in seguito attraverso le singole parti orchestrali) e per almeno i due anni seguenti non scrisse sul pentagramma nemmeno una nota. E’ il tratto umano che – talora pervaso di dolore, incomprensioni, fatiche – accompagna l’itinerario di artisti la cui opera è sempre strettamente legata, nelle glorie del successo come nei travagli, alla materialità della dimensione biografica. 

 

Uno dei frangenti più significativi, al riguardo, si trova risalendo al 1555: è l’anno in cui Michelangelo, alle prese con quella scultura che sarebbe poi stata nominata Pietà Bandini, avvedutosi delle irrimediabili imperfezioni del marmo da cui stava estraendo le figure abbandonò la lavorazione e forse, in un impeto di collera, tentò persino di distruggerla. Il tesoro che questo apparente fallimento ha generato è sotto gli occhi di tutti: un capolavoro incompiuto che, oltre a permetterci una vertiginosa immedesimazione nell’istante dell’atto creativo, svela quella tensione verso il compimento che costituisce il fondamento di ogni gesto artistico. Le tracce di quel momento di sconforto rimangono visibili nella sezione inferiore dell’opera e, se l’episodio fosse confermato, apparirebbe davvero commovente il fatto che proprio le gambe sono l’elemento che l’autore, nella successiva Pietà Rondanini, avrebbe levigato a lungo, come accarezzandole, fino agli ultimi giorni di vita. 

 

Tornando ad un tempo a noi più prossimo, un itinerario tra apparenti fallimenti conduce inevitabilmente alla vicenda di Vincent Van Gogh, che in affrante missive indirizzate al fratello accennò all’“avvilimento dovuto al fallimento di ogni cosa che ho finora intrapreso” e all’“assedio dell’insuccesso che durerà l’intera nostra esistenza”. Poco o per nulla noto nell’ambiente artistico dell’epoca (la sua attività più rilevante, incentrata su uno stile fatto di pennellate frammentarie e concitate, si può racchiudere nell’arco di pochi tormentati, drammatici, anni) egli portò avanti l’impegno pittorico accompagnato da un inesorabile, costante senso di sconfitta. Il riferimento, nell’ultima lettera, a “quei quadri che, pur nel fallimento totale, conservano la loro serenità”, lascia la percezione della mesta, tenue rassegnazione di un artista che mai avrebbe immaginato quali riconoscimenti il tempo avrebbe riservato alla sua opera. Franz Kafka, Emily Dickinson, Edgar Allan Poe, Paul Gauguin, Oscar Wilde… molti di coloro che oggi consideriamo i grandi nomi dell’arte e della letteratura videro spesso, nel corso della loro esistenza, esigui successi e reiterata indifferenza. Ed è curioso enumerare le circostanze in cui critici troppo sicuri di sé, come incauti giudici di cimentosi debutti, non esitarono a esternare espressioni astiose e severissime, talora persino arroganti, nei confronti di opere a cui in seguito sarebbe stato riconosciuto inimmaginato valore. Nel 1877, per riportare un esempio citato da Gombrich nei suoi celebri scritti sull’arte, un critico si riferì ai Notturni del pittore americano James McNeill Whistler (1834-1903) con sfrontate parole: “Non avrei mai creduto che un buffone potesse chiedere duecento ghinee per gettare un secchio di colori in faccia al pubblico”.

 

Gombrich ricorda i “Notturni” del pittore americano Whistler, accolti dalla critica come “un secchio di colori in faccia al pubblico”

 

Ma l’autore non si fece intimorire e quando gli venne domandato se davvero avesse previsto un simile prezzo per un’opera realizzata in due giorni, rispose con accorte parole: “No, l’ho chiesto per la conoscenza acquisita durante un’intera vita”. Nel maggio del 1913 Igor Stravinskij presentava al pubblico di Parigi Le sacre du printemps. Già dopo i primi minuti (li riascolti chi voglia tornare a uno dei più noti frangenti di rottura dei canoni estetici della musica) dal pubblico giunsero ad un tratto delle risa, poi seguite, gradualmente, da sempre più esplicite esclamazioni canzonatorie. L’autore stesso ne avrebbe lasciato un mesto resoconto: “Queste manifestazioni, dapprima isolate, divennero presto generali e, suscitando d’altra parte delle opposte espressioni, produssero in breve un chiasso infernale (…). Fatto strano, alla prova generale (…)  tutto si era svolto in modo calmo e io ero lontano mille miglia dal prevedere che lo spettacolo avrebbe provocato quella gazzarra”. Il compositore Alfredo Casella, presente alla serata, riferì: “A metà del Preludio scoppiò la tempesta, sotto forma di urli, fischi e schiamazzi di ogni genere. (…) Per tutta la mezz’ora che dura il lavoro, fu impossibile udire qualcosa”. 

 

“Ero lontano mille miglia dal prevedere che lo spettacolo avrebbe provocato quella gazzarra”, dice Stravinskij della “Sacre du printemps”

 

Musica, scultura, pittura. Arti che, collocandosi in un determinato frangente della storia, sembrano al contempo sempre superarlo, spingendo l’umanità verso una ricerca continua e infaticabile. Come chiarì, del resto, l’incisiva risposta che il già citato Beethoven, al culmine delle critiche che sentì rivolgersi (“Beethoven, come tutti dicono (…), è un pazzo musicale, perché questa non è musica”) aveva dato con tono fiero e, verrebbe da dire, profetico: “Oh, ma questa non è roba per voi, bensì per un tempo futuro!”.