
Ansa
Generazione ansiosa
A essere cambiati non sono i ragazzi, ma quel che abbiamo messo in mano loro
L'adolescente si perde nei social e nei videogames che trasformano il desiderio di evasione e di confronto in bisogno compulsivo fino a esiti di ansia, isteria e violenza. La nuova battaglia dell'educazione spiegata nel libro di Pellai e Tamborini
Fino a non molto tempo fa, la peggior minaccia che un adolescente poteva sentirsi rivolgere da mamma e papà era: “Non uscirai fino a quando non lo dico io!” Oggi, sempre più genitori si trovano a dover mendicare il contrario, e la minaccia più temuta è diventata: “Ti stacco il wi-fi!”, o “Ti tolgo la console!”. Comincia da questa constatazione il nuovo, necessario e limpido libro di Alberto Pellai e Barbara Tamborini (Esci da quella stanza. Come e perché riportare i nostri figli nel mondo, Mondadori). Un saggio che, oltre a mamme e papà, aiuterà molto anche gli insegnanti, e tutti coloro che hanno a che fare con la cruciale e dolorosa battaglia dell’educazione.
La tesi di Pellai e Tamborini è che a cambiare non siano stati i ragazzi: l’adolescenza è ancora il momento della vita in cui più forte è avvertito il bisogno di “andare fuori”. Piuttosto, a cambiare sono stati gli strumenti che abbiamo messo in mano loro, social e videogame in primis: due mondi in cui l’adolescente si perde, che prendono il suo giusto desiderio di evasione e di confronto, di gioco e di divertimento, e lo trasformano in bisogno compulsivo, fino a esiti di ansia, isteria e violenza, che talvolta esplodono in patologie o tragedie. A causare questa marcescenza del desiderio in compulsione, come ormai ampiamente dimostrato, è l’ingaggio a base di dopamina che si attiva scrollando i social o accedendo ai videogame, voluto da chi li produce ed è interessato unicamente a lucrarci su, com’è per l’industria pornografica.
Esci da quella stanza non si limita a denunciare studi alla mano (su tutti: La generazione ansiosa di Jonathan Haidt) la gravità della situazione, ma vuole anche provare ad aiutare gli educatori. Essi infatti non sono sempre “adultescenti” su cui facilmente riversare ogni colpa: molti genitori pongono tuttora limiti rigorosi in casa, tuttavia si ritrovano impotenti contro industrie striscianti e molto più influenti di loro, anche a causa dell’emulazione tra coetanei. Occorre non essere, per citare gli autori, “genitori elicottero” e “spazzaneve”, angosciati dal non perdere mai di vista i figli e dal rimuovere loro ogni ostacolo. E’ solo mediante la concessione di fiducia e tramite la messa alla prova che i ragazzi possono diventare grandi. Questo significa rinunciare a tenerli al sicuro in casa, dove social e videogame sono l’appagante e facile evasione, e lanciarli nella realtà, con tanto sacrificio (di tempo e di paranoie).
C’è un bel capitolo conclusivo dedicato interamente a come poterci riuscire. E occorre anche che le Istituzioni si muovano, come già accaduto per il fumo. Alcuni paesi si stanno già muovendo ad esempio per limitare l’accesso dei più giovani ai social. Da noi qualcosa è stato accennato sul fronte della scuola, anche se accolto da tanto irresponsabile scetticismo. Ma dopo 15 anni in cui abbiamo messo in mano a tutti uno smartphone, quanti cocci di ragazzini dovremo raccogliere prima di accorgerci che per loro crescere senza averne uno è meglio?