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Da Russell a Simone Weil: l'impotenza del pacifismo. Per fortuna ci resta la politica

Siegmund Ginzberg

Un lungo percorso di pensatori e movimenti animati dal rifiuto della violenza, ma spesso divisi, contraddittori o ininfluenti nei momenti decisivi. Solo l’azione concreta degli Stati ha inciso sugli esiti dei conflitti

Il pacifismo non ha mai impedito una guerra. Né è mai riuscito a farne finire una. E’ terribile, desolante, duro a dirsi. Ma le cose purtroppo stanno così. Lo sdegno nobile, generoso, contro le “inutili stragi”, contro i massacri insensati, le aggressioni ingiustificate, non hanno impedito nessuna delle grandi guerre del Novecento. Non riescono a far cessare quel che sta avvenendo in Ucraina e a Gaza. Non hanno impedito i genocidi, non sono riusciti con (e nemmeno hanno contrastato) la Shoah. Non si ponevano neppure questo come obiettivo. Talvolta c’è riuscita la politica. Altre volte, neppure quella. Albert Einstein era antimilitarista e pacifista. Senza se e senza ma. Era un ebreo tedesco. Nel 1914, a Grande guerra già iniziata, 93 grandi intellettuali e scienziati tedeschi firmarono un “Manifesto al mondo della cultura” che inneggiava all’esercito (anzi al militarismo) tedesco. Einstein, in compagnia di un solo altro scienziato, peraltro di origine russa, se li mise tutti contro, promuovendo invece un “Appello agli Europei” in cui li invitava ad esercitare la loro influenza per promuovere la pace e un’Europa politicamente unita. Lo firmarono solo due altri scienziati. Ovviamente non furono ascoltati. Dopo la grande carneficina, propugnò l’obiezione di coscienza assoluta. “Se solo il due per cento di quelli chiamati a svolgere servizio militare dovesse affermare ‘Noi non andremo a combattere. Ci vogliono altri metodi per comporre le dispute internazionali’, allora i governi sarebbero impotenti, non potrebbero mettere in prigione questa massa di persone”, disse ad una riunione di pacifisti a New York. Contro la guerra (ma cercando anche di capire il perché delle guerre) era diretto lo scambio pubblico di lettere che Einstein ebbe con Sigmund Freud.

Ma poi cambiò opinione. Già esule dalla Germania nazista, avrebbe pubblicato nel 1935 un saggio intitolato A Re-examination of Pacifism, in cui sosteneva la necessità che i pacifisti accantonassero obiezione di coscienze e disarmo e invece promuovessero, contro i totalitarismi fascisti, un’alleanza, anche militare, tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione sovietica. Fu, con altri fisici, tra i firmatari, nel 1939, di una lettera personale al presidente Roosevelt in cui si denunciava il pericolo che la Germania nazista fosse sul punto di dotarsi di una bomba nucleare, e si raccomandava che ci arrivassero prima gli Stati Uniti. Sarebbe stato l’innesco del progetto Manhattan.  Era stato sempre Hitler a far cambiare idea al matematico inglese Bertrand Russell, che nel dopoguerra sarebbe divenuto uno dei massimi ispiratori del movimento contro le armi nucleari. “Provavo un’indicibile ripugnanza per i nazisti: crudeli, fanatici e stupidi […] Benché mi aggrappassi ancora alle mie convinzioni pacifiste, lo facevo sempre con maggiore difficoltà e, quando, nel 1940, la minaccia di un’invasione pesò sull’Inghilterra […] decisi che era mio dovere appoggiare tutto ciò che pareva necessario […] per quanto difficile si presentasse e per quanto fossero dolorose le conseguenza prevedibili della Seconda guerra mondiale”. Pacifista, antimilitarista convinta era anche l’ebrea francese Simone Weil. Tra il 1936 e il 1939 scrisse un saggio su L’Iliade o il poema della forza, in cui si sosteneva che forza e violenza deumanizzano sia quando le si subisce che quando le si esercita. Lo completò tra dicembre 1940 e gennaio 1941. Ma poi fuggì in Inghilterra, dove avrebbe preso parte alla guerra, in divisa, nel quartiere generale della Royal Air Force. Non ricordo più chi ha detto che solo gli stupidi non cambiano mai idea. Io ho sempre preferito quelli capaci di cambiarla.


Tutti vogliono la pace. O almeno dicono di volerla. Nessuno è tanto sfacciato da proclamare, come faceva Marinetti, il futurista che poi sarebbe diventato uno dei vati del fascismo, “Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e [udite! udite!, ndr] il disprezzo della donna”. Niente si perde nella storia, così come non si perde niente dell’energia nell’universo. Già nella Francia della Belle Époque, i guerrafondai non si definivano tali ma “patrioti”. Poi si sarebbero definiti “difensivisti”, in contrapposizione ai “pacifisti”, alla sinistra imbelle e disfattista. In realtà le cose non sono mai state così semplici. Non è mai esistito un solo “pacifismo”. Né ci fu solo un pacifismo di sinistra. In Europa, per tutti gli anni ‘20 e ‘30, avrebbe imperversato, anzi sarebbe stato maggioritario un pacifismo di destra, nazionalista (sovranista si direbbe oggi). La sinistra era più divisa della destra. La Sfio (Sezione francese dell’Internazionale operaia), erede del leader socialista Jean Jaurès, che era stato ammazzato, causa il suo pacifismo, giusto alla vigilia della Grande guerra, era spaccata tra le posizioni di Paul Faure, che vedeva il rischio di una guerra come politicamente ed eticamente più insopportabile dell’avanzata dei fascismi, e quelle di Leon Blum, che privilegiava invece la necessità di fermare l’aggressione. Litigavano tra di loro, a proposito di pacifismo e riarmo, più di quanto facciano tra di loro i pacifisti di estrema sinistra con Elly Schlein e la Schlein con Conte. All’indomani della conferenza di Monaco, in cui l’Occidente aveva dato praticamente mano libera a Hitler all’annientamento della Cecoslovacchia democratica, scrisse: “La guerra è probabilmente scongiurata. Ma a condizioni tali per cui io, che non ho mai smesso di lottare per la pace, che da tanto tempo ho fatto di questo impegno una ragione di vita, non posso provare gioia e mi sento lacerato tra sollievo e vergogna”. Da primo ministro del Front populaire, Blum, sostenitore della Repubblica spagnola, aveva però accettato l’embargo delle armi alla Repubblica, che finì col favorire la vittoria della coalizione degli insorti franchisti. Il Comité de vigilance des intellectuels antifascistes, diretto da pacifisti, era rimasto a lungo pacifista integrale. 


Pacifisti assoluti rimasero a lungo i più celebri intellettuali francesi tra le due guerre. La Guerre de Troie n’aura pas lieu di Jean Giraudoux era andata in scena nel 1935. Era stata un’amica a regalarmelo quando eravamo giovani. Mi aveva quasi convinto, se non che la guerra di Troia che intendeva l’autore, cioè la guerra europea, sarebbe invece arrivata ineluttabilmente solo qualche anno appresso. Il guaio è che convinse un’intera generazione, la quale, dopo aver conosciuto gli orrori della Prima guerra mondiale, era disposta a far di tutto perché non si ripetessero. Esprimevano le idee di buona parte del loro popolo, diffuse in tutte le classi e gli ambienti sociali. Era invece la destra ultra nazionalista ad essere pacifista senza se e senza ma. Gli storici lo definiscono “nazional-pacifismo”, che non a caso fa rima con “nazional- socialismo”. Tra gli ingredienti del pacifismo di destra (ma anche di quello anarchico e di estrema sinistra) c’era anche l’antisemitismo, antica tradizione francese. Si accusavano gli ebrei di volere “una guerra generale”, di essere pronti ad accettare “la morte di milioni di esseri umani […] per vendicare quella di alcuni di loro”. Uno dei leader dell’ala ultrapacifista della Sfio, dichiarava, plaudendo al compromesso di Monaco, che “il popolo francese non ha alcuna voglia di vedere una civiltà annientata e milioni di esseri umani sacrificati per rendere la vita più gradevole a centomila ebrei dei Sudeti”. E’ divenuto proverbiale il titolo dell’editoriale di Marcel Déat, uno dei più celebri convertiti dal socialismo al fascismo, su L’Oeuvre da lui diretto, giusto alla vigilia dell’aggressione nazista alla Polonia, cioè della Seconda guerra mondiale: Mourir pour Dantzig? Vi sosteneva che per salvare la pace bisognava lasciare la mano libera a Hitler sulla Polonia.


Tutti i nazional pacifisti, o nazional sovranisti che li si voglia chiamare, si distinsero poi nel prendere decisamente le parti della Germania una volta iniziato il conflitto. In Inghilterra il pacifismo della sinistra laburista aveva conosciuto conflitti simili. Il capo dei fascisti britannici, Oswald Mosley, era pacifista e filonazista. Hitler stesso si era costantemente dichiarato “uomo di pace”. Salvo spiegare, a porte chiuse e con l’obbligo del riserbo più assoluto, dopo Monaco, che era tutta una finta per riarmare e prepararsi alla guerra e alla conquista di spazio vitale. George Orwell, che non può certo essere accusato di essere stato tenero con i totalitarismi sia di destra che di sinistra (e soprattutto quello staliniano), tacciò i pacifisti di essere “obiettivamente fascisti”. In Francia fu sempre Déat, dopo aver votato entusiasticamente la fiducia al governo di Vichy a coniare il termine “collaborazionismo”. “Non bisogna credere che l’opinione pubblica sia nettamente spaccata in due, i collaborazionisti da una parte e gli anglofili dall’altra […] Pensate ai prigionieri? [della Francia sconfitta in mano ai tedeschi] Collaborate. Vi preoccupate della carenza di carbone e delle difficoltà dei trasporti? Collaborate. Vi dolete dell’assenza di governo e della frattura che taglia in due la Francia? Collaborate. E’ perché non abbiamo mai smesso di occuparci di tutto questo, e del futuro, che siamo stati, dal giorno dell’armistizio, per la collaborazione” (L’Oeuvre, 4 novembre 1940). Fino a quando ci predicheranno collaborazione con Trump? Fuggito coi tedeschi in ritirata, Déat sarebbe stato condannato a morte in contumacia dall’Alta corte di giustizia francese per alto tradimento. Nascostosi in un convento a Torino, sarebbe vissuto fino al 1955. 


Ambiguo, per dirla eufemisticamente, in merito alla guerra, anche l’atteggiamento iniziale del Partito comunista francese. Antifascisti sfegatati finché antifascisti erano l’Internazionale e Stalin, erano diventati pacifisti sfegatati quando Stalin fece il Patto con Hitler per spartirsi la Polonia. La parola d’ordine fu, in quel momento, “no alla guerra imperialista”, disertare piuttosto che andare al fronte contro i tedeschi. Salvo ripensarci quando cambiò all’improvviso il nemico. Allo scoppio della guerra Thorez e gli altri dirigenti del Pcf furono sorpresi al mare. Si godevano le ferie conquistate dal Fronte popolare. I comunisti cambiarono idea solo dopo che Hitler aveva aggredito l’Unione sovietica. Fu dura far dimenticare la figuraccia di prima e, diventare, da resistenti, “il partito dei fucilati [dai nazisti]”.  Non fu certo l’unica volta in cui il pacifismo era strumentale alle posizioni di una parte. “La pace tra gli oppressi, la guerra agli oppressor” cantano i rifugiati anarchici espulsi da Lugano. Nel dopoguerra il Pci fu l’anima di un grande movimento mondiale, quello dei Partigiani della pace. Le migliori menti giovanili della sinistra andavano a difendere la pace, assieme ai loro coetanei, alle manifestazioni a Praga e a Mosca. Lo dirigeva Emilio Sereni, con il quale poi ho lavorato nei primi anni ‘70, quando lui era direttore di Critica marxista. Si era in piena guerra fredda. Infuriava allora la guerra in Vietnam. Il mondo era terrorizzato all’idea di un conflitto nucleare tra le superpotenze. Ne parlai un giorno con Sereni. “Ma no, non preoccuparti, i capitalisti non vogliono nemmeno loro la guerra, Colpirebbe anche loro, ne sarebbero travolti”, mi rispose. Era pacifismo di parte. Ma pacifismo vero. La guerra non ci fu. Ma non tanto grazie alla mobilitazione popolare, quanto grazie all’equilibrio del terrore atomico, e al lavoro politico, più discreto, più nel sottofondo, ma determinante per la coesistenza pacifica.


Ricordo i cortei di quegli anni, a cui, come molti miei coetanei, prendevo parte. Si gridava non solo “Vietnam libero”, ma anche “Il Vietnam vince perché spara”, e anche “Al Fatah vincerà”, col sottinteso: vince perché spara e mette le bombe. Erano sciocchezze assolute. Il Vietnam vinse perché quella guerra era sbagliata e, come la storia dimostrerà in seguito, assolutamente inutile. Non furono le manifestazioni a farla finire, per quanto l’America fosse spaccata in profondità, e la maggioranza dei giovani non avesse nessuna voglia di essere estratta a sorte per andare a morire dalla parte opposta del mondo. Finì perché un presidente di destra, Richard Nixon, eletto alla grande, contro i rivali pacifisti democratici, decise che gli conveniva di più dividere Cina e Russia, e consolidare una convivenza pacifica sia con l’Urss che con la Cina. Nei miei anni da corrispondente a Pechino, la guerra (forse anche atomica) che si temeva era ancora quella tra Cina e Unione sovietica. Ce ne fu invece una vera (con centinaia di migliaia di morti, tanti quanti, per parte, nella guerra in Ucraina) tra Cina e Vietnam. Il mio Pci non cadde mai nella trappola del “meglio sovietici che capitalisti”, che sarebbe stato il riflesso speculare del “meglio morti che rossi”. Già nel 1963 Palmiro Togliatti si era pronunciato inequivocabilmente contro la possibilità stessa di una guerra nell’èra nucleare. “Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa ‘novità’; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto”, disse in un celebre discorso a Bergamo, terra allora assolutamente cattolica. Pacifismo di parte, di opportunità anche quello? No, fu scelta, anzi un’iniziativa politica. Qualche giorno dopo sarebbe stata pubblicata la Pacem in terris di Giovanni XXIII. L’una e l’altra avevano opposizioni interne, che perdurarono a lungo. Bisognerà attendere altri 13 anni, il 1976, perché Berlinguer dichiari chiaro e tondo che preferiva “l’ombrello Nato” alla tutela sovietica. La scelta “pacifista” di Togliatti fu formalizzata nel consiglio nazionale del Pci dell’aprile 1963. Sono andato a rivedermi in rete il numero dell’Unità che riporta integralmente la relazione del segretario. Nessuno dei titoli si riferisce esplicitamente alla svolta di Bergamo. Tranne un taglio di prima su “Eisenhower costretto ad ammettere che i popoli hanno bisogno di pace”. L’apertura del giornale dice: “Il 7 giugno il popolo impugni la scopa e faccia pulizia dei corrotti e dei truffatori”. La scadenza elettorale innanzitutto, come sempre (la pietra al collo di sempre). Ma la scelta della mano tesa ai cattolici andava ben oltre l’opportunità elettorale del momento. Sulle contraddizioni e la storia travagliata e ambigua del pacifismo, dall’Ottocento ai giorni nostri, un catalogo molto ampio, direi quasi esaustivo, viene offerto da Roberto Della Seta nel suo recentissimo Pacifismi. Storia plurale di un’idea controversa (Mimesis 2025). Il quasi è dovuto all’assenza, che non riesco a spiegarmi, di alcuni nomi tra le centinaia di intellettuali e politici citati. In 422 pagine, non c’è menzione, per esempio, di Simone Weil. E nemmeno di Togliatti. 
 

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