
Ansa
Il caso
Picasso a Ramallah. Un monito contro l'ipocrisia del mondo dell'arte sul dramma della guerra
Charles Esche, direttore del Van Abbemuseum, nel 2011 si prese il rischio di mandare un quadro della collezione in Cisgiordania. Oggi non avrebbe nemmeno corso il rischio, lo avrebbero matematicamente licenziato su due piedi
Qualche giorno fa conversavo con Willem Jan Renders, ex curatore del Van Abbemuseum di Eindhoven, seduto al caffè di Ges-2 a Mosca, l’incredibile casa della cultura progettata da Renzo Piano, riflettendo disperatamente su come l’arte rimanga ancora l’unico strumento o filo di speranza per ricucire o tenere assieme le lacerazioni del mondo. Renders mi raccontava allora di quando nel 2011 il suo museo accettò il difficilissimo invito di Khaled Hourani, direttore artistico della International Academy of Art Palestine a Ramallah, di portare per la prima volta un Picasso del 1943, parte della collezione del museo, in Palestina. Un’operazione che fu seguita da due giorni di conferenze a Ramallah, Gerusalemme est e Gaza. Sul web si possono trovare immagini dei due soldati dell’Autorità palestinese che piantonano il “Busto di donna” del pittore spagnolo, una tela nemmeno troppo grande.
Il progetto e l’immagine sembrano lontani anni luce e oggi la situazione è quasi surreale. Nell’apocalisse attuale, pensare che l’arte possa essere stata strumento diplomatico, di pace, speranza e razionalità fa venire da piangere. Eppure… eppure è molto importante continuare a immaginare proprio perché l’immaginazione, lo sapevano gli studenti del ’68, quando è al potere ha un grande potere. Più disperata è la situazione, più l’arte e l’immaginazione possono essere potenti. Anche nella forma di un semplice piccolo dipinto firmato da un artista simbolo, un artista brand, un artista globale prima ancora che si sapesse cosa fosse la globalizzazione. Fantasticare come un artista globale, Ai Weiwei, Banksy, Kapoor, Cattelan, Hirst, Abramovic, per citarne solo alcuni, nell’èra degli ipersocial possa scuotere le coscienze politiche del mondo non è né proibito né un crimine. Peccato che, a parte comparire con la kefiah a qualche evento social, inteso come mondano, non come X, Instagram o TikTok, gli artisti stanno alla larga dalle trincee, figuriamoci da Ramallah. Ma non necessariamente c’è necessità di sporcarsi le mani e i piedi o rischiare la vita per fare qualcosa che lasci il segno e che dimostri un reale impegno.
Basterebbe utilizzare la propria coerenza, anziché la sindrome della riverenza a strategie di carriera o mercato. Alla prossima Biennale di arti visive di Venezia, accadrà probabilmente anche alla prossima edizione, si organizzeranno proteste attorno al padiglione d’Israele che ancora una volta, altrettanto probabilmente, rimarrà chiuso. Sicuramente, nessuna delle altre nazioni con il proprio padiglione, molte delle quali hanno già riconosciuto lo stato palestinese, si farà da parte per dare il proprio spazio nazionale ad artisti palestinesi. Nessun artista, mi vien da scommettere, cederà il proprio invito o spazio a un artista palestinese. Essere in vetrina con la kefiah è un conto, lasciare che in vetrina al posto tuo vada un’altra persona che la kefiah ce l’ha nel cassetto da sempre non è il caso, anzi è un rischio: il rischio che in vetrina a te non ti ci mettano più.
Charles Esche, direttore del Van Abbemuseum, al tempo si prese il rischio di essere licenziato mandando il Picasso della collezione a Ramallah. Oggi non avrebbe nemmeno corso il rischio, lo avrebbero matematicamente licenziato su due piedi. Non so se lo avrebbe fatto ugualmente ma penso di sì. Sarebbe bello e importante se qualche curatore o commissario responsabile di qualche padiglione alla prossima Biennale avesse il coraggio di sacrificarsi per dare forma alle proprie parole, al proprio sdegno alla disperazione di tutti davanti alla tragedia non solo di un popolo, ma del mondo. Riconoscere una nazione ma poi quando fa comodo o per paura fare finta di non vederla è molto imbarazzante. Il gallo per San Pietro dovette cantare tre volte. Il gallo del mondo dell’arte ha cantato talmente tanto da aver perso la voce.