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L'ebreo geniale. Riscoprire Mario “Teddy” Castelnuovo-Tedesco, compositore prodigioso

Alberto Riva

La musica, le leggi razziali, la fuga a Hollywood. Perché andavano tutti a lezione dal Maestro? Perché a Los Angeles non c’era nessuno come lui

Schivo, coltissimo, elegante – la suprema eleganza della modestia – a Los Angeles lo chiamavano “Teddy”, una maniera pragmatica di accorciare un cognome di solida schiatta fiorentina: Castelnuovo-Tedesco. La scena si svolge verso la fine degli anni Quaranta. Di nome faceva Mario. Un cinquantenne (era del 1895) di professione compositore. Ma in quel periodo la sua occupazione principale era dare lezioni private, in casa, a ragazzi poco più che ventenni. I loro nomi ci suggeriscono qualcosa: André Previn, Jerry Goldsmith, John Williams, Nelson Riddle, Lionel Newman. Cosa avevano in comune? Quasi tutti, molti anni dopo, vinceranno un Oscar con le loro colonne sonore. E perché andavano tutti a lezione dal Maestro Mario, alias Teddy? Perché a Los Angeles non c’era nessuno come lui; nessuno che sapesse quello che sapeva lui di composizione, fughe, contrappunto, storia della musica, opera lirica, strumenti, timbri. Per la verità, almeno due al suo livello c’erano, ed erano pure vicini di casa a Beverly Hills: Igor Stravinsky e Arnold Schönberg. Transfughi anch’essi. Loro però erano delle star internazionali, lui no: lui era un misconosciuto mago dell’orchestrazione, e su quel versante non aveva rivali. Infatti, da una decina d’anni faceva il ghost writer per gli studios di Hollywood. Era un po’ come il tarantiniano Mister Wolf: risolveva problemi. Quando c’era una scena difficile da musicare, chiamavano lui. Una volta un produttore gli chiese una sinfonia in quattro movimenti: durata tre minuti e mezzo! Gliela fece. Per alcuni anni era stato a salario fisso presso la Metro Goldwyn Mayer, poi gli era convenuto mettersi in proprio, così lavorava anche per la Columbia Pictures. Portava il pane a casa. Era sposato con Clara e aveva due figli piccoli: la villetta di Beverly Hills era di nessuna pretesa, tre stanze in affitto. 

 

 

Perché nel ’43 lo ritroviamo esiliato in California a dar lezioni private e a smazzarsi arrangiamenti per Vidor, Cukor, Clair? Semplice: era ebreo 

 

A Firenze, famiglia abbiente, era stato un bambino prodigio. Aveva studiato sotto la guida di Ildebrando Pizzetti, il quale, con Gian Francesco Malipiero e Ottorino Respighi, faceva parte della triade di leoni della Generazione dell’Ottanta (dell’Ottocento), solenni fari dell’establishment musicale italico. In vista dell’esame finale del Conservatorio, per un anno scrisse una fuga al giorno: 365 fughe. Alfredo Casella lo lanciò in Europa. Quando scrisse un concerto per violino (I Profeti) lo volle il lituano Jascha Heifetz e Arturo Toscanini lo diresse a New York. Un chitarrista spagnolo chiamato Andrés Segovia, suo coetaneo, voleva che fosse Mario a scrivere musica nuova per lui: e lui gli regalò il Capriccio del Diavolo, ispirato a Paganini. Il pianista franco-tedesco Walter Gieseking, leggendario, infilava nei suoi programmi, tra Bach e Beethoven, uno squisito brano dal carducciano titolo I cipressi: era suo. Poi si conobbero, e gli chiese una suite, la Rapsodia viennese, che immortalò. Il virtuoso russo del violoncello Gregor Piatigorsky nel 1932 gli commissionò un concerto e nel ‘35 fu ancora Toscanini a dirigerlo con la New York Philharmonic. E allora perché mai nel ‘43 lo ritroviamo esiliato in California a dar lezioni private e a smazzarsi gli arrangiamenti di Charles Vidor, George Cukor e René Clair? Semplice: Mario Castelnuovo-Tedesco era ebreo. 

 

Per un anno, scrisse una fuga al giorno per l’esame finale del Conservatorio: 365 fughe. Lo vollero Casella, Heifetz, Toscanini 

 

Nel ‘39 era scappato dalle leggi razziali fasciste e dopo la guerra non tornò più a risiedere nel suo paese, nonostante gli fosse stata offerta la direzione di più di un conservatorio. Sarebbe morto a Los Angeles nel 1968. A quel punto, il suo nome era quasi dimenticato, se si fa eccezione per i chitarristi. Segovia aveva fatto scuola. Ma la realtà dei fatti è che il più talentuoso, prolifico, riconosciuto compositore italiano tra le due guerre era scomparso dalle mappe. Eppure, aveva continuato a comporre, a scrivere, a collaborare con i colleghi: concerti, musica vocale, corale, quartetti, quintetti, teatro musicale. Ormai era tardi: il dopoguerra porta nuove mode, il suo nome ricordava un periodo da archiviare della storia italiana e la sua musica rimase imprigionata in un cliché che la voleva passatista, vecchia. Nulla di più falso, e lui, che aveva la chiarezza di sguardo e la solidità artistica di un artigiano rinascimentale, non se ne crucciò. Sapeva che il tempo è galantuomo. 

 

E infatti, da qualche anno il mondo riscopre il nome di Mario Castelnuovo-Tedesco, e la sua musica ritrova finalmente il posto che merita nella contemporaneità. Da una decade, le Edizioni Curci pubblicano in una collana apposita la copiosa messe di spartiti inediti conservati presso la Library of Congress di Washington. La stessa casa editrice pubblica la bella biografia del compositore che Angelo Gilardino, chitarrista e musicologo, scrisse nel 2018, Un fiorentino a Beverly Hills, che tra i molti ha il merito di illuminare quei fatti di vita che Castelnuovo-Tedesco omise dalla sua autobiografia (Una vita di musica, Cadmo 2005), anche perché Gilardino fu amico e corrispondente del compositore negli ultimi anni ed ebbe racconti epistolari di prima mano. Qualche anno fa, il violinista Domenico Nordio ha inciso per la Sony il famoso concerto I profeti con l’Orchestra della Svizzera Italiana e Tito Ceccherini. L’etichetta Naxos sono ormai anni che documenta specialmente l’opera per chitarra, grazie a interpreti come Andrea De Vitis, la sudcoreana Bokyung Byun, la russa Irina Kulikova, il grande virtuoso croato Zoran Ducik.

 

Ma non solo: sono da poco tornati alla luce i tre Quartetti d’archi, sempre da Naxos, nella meravigliosa lettura del Quartetto Adorno, formazione italiana di giovani di primissimo livello, e uscirà a breve il cd dei Quintetti, dove all’Adorno si aggiunge il pianista Alessandro Marangoni, che da tempo indaga la musica pianistica del fiorentino e ha inciso con Enrico Dindo le sonate per piano e violoncello. Non solo: Marangoni ha inciso la prima splendida versione integrale di Evangélion (1947), una raccolta di 28 brevi pezzi che ripercorrono la vita di Gesù. E qui cominciamo a scoprire uno degli aspetti più peculiari di questo grande artista: l’ebreo che mise in musica la vita di Cristo e lo fece con una varietà di umori, sensualità, fantasia e forza che lo rivelano come uno dei più originali e moderni autori del suo tempo: le stesse caratteristiche si ritrovano nei quartetti, anche il terzo, tutto ispirato dalle memorie della campagna toscana: ma la sua è una nostalgia anti-sentimentale, e pur essendo distante dall’impressionismo di un Debussy (che pure ammirava e studiò), la sua musica suona oggi come la traduzione acutissima di straordinarie visioni interiori.

 

Mise in musica la vita di Cristo, con una varietà di umori, sensualità, fantasia e forza che lo rivelano come uno dei più moderni  del suo tempo

 

Lo tacciavano di neoclassico, ma era lo stesso equivoco che riguardò il suo vicino Stravinsky: in realtà, come il russo, anche Castelnuovo-Tedesco ripercorreva e rielaborava tutta la storia della musica, con un interesse spiccato per quella antica, le scale modali elleniche e le musiche della tradizione ebraica; nel 1943 scriveva per i cantori e gli organisti della sinagoga di Los Angeles un Sacred Service for the Sabbath Eve (dedicato a sua madre scomparsa e mai rivista), tranne che lo fece polifonico e non monodico – non a caso, il suo maestro Pizzetti lo chiamava scherzosamente “il Monteverdi ebreo”. L’Antico Testamento era una fonte d’ispirazione primaria, ma sembra evidente che il compositore non fosse mosso tanto dal sentimento religioso, quanto dall’interesse per le figure umane, le leggende, le storie e, su tutto, interessato a come esse si fossero tradotte in materia musicale nel corso dei secoli. Il concerto I profeti, suo capolavoro, anche se scritto prima dell’emigrazione, riflette quel sentimento di perdita proprio della diaspora, sentimento tragico quanto vitale, ed è curioso pensare – ascoltandolo – che il suo allievo John Williams scriverà poi la colonna sonora dello spielberghiano Schindler’s List, con quel lamento straziante di violino che si rifà chiaramente all’universo melodico ebraico. In fondo, la musica di Castelnuovo-Tedesco rispecchia un destino, ancorché sofferto e non voluto: un cosmopolitismo e una curiosità che “l’osso spolpato” (definizione sua) dell’ambiente musicale italiano non avrebbero certo favorito.

 

Mentre il suo maestro Pizzetti e altri insigni musicisti nel 1925 firmavano il “Manifesto degli intellettuali fascisti”, lui andava a Viareggio a sottoporre la sua prima opera lirica La mandragola (da Machiavelli) a un Giacomo Puccini sul viale del tramonto, che diede il benestare e qualche ritocco; si incontrava regolarmente con lo spagnolo Manuel de Falla; leggeva La Recherche di Proust ignorando i diktat di Benedetto Croce, il cui idealismo condizionava anche la vita musicale; eseguiva al piano le avanguardie francesi, così care anche al suo amico Nino Rota (“mio fratello minore”) e godeva della benevolenza e della stima di Gabriele D’Annunzio, che lo invitò al Vittoriale insieme alla soprano francese Madeleine Grey, celebre interprete di Ravel e Debussy, con la quale Castelnuovo-Tedesco, trentenne, dava dei recital qua e là – non è chiaro se il Vate fosse più interessato alla bistrata soprano o al pianista (qualche dubbio viene). 

 

Una cosa è certa: come scrive Gilardino, il toscano era “un falso conservatore”, era un artista moderno senza fregole iconoclaste, la sua musica piaceva, aveva un sapore fresco, era raffinata, solida, densa di riferimenti culturali, chiaramente nuova. Nel 1936 Luigi Pirandello si rivolse a lui per le musiche de I giganti della montagna, che il drammaturgo aveva promesso al Maggio Musicale Fiorentino, ma il 10 dicembre di quell’anno l’autore dei Sei personaggi muore a Roma lasciando il dramma incompiuto; andò in scena l’anno successivo, ma il compositore si scontrò col nuovo regista e ritirò la partitura. 

 

Era un “falso conservatore”,  un artista moderno senza fregole iconoclaste, la sua musica aveva un sapore fresco, era raffinata, solida

 

Insomma, Castelnuovo-Tedesco, a quarant’anni, è all’apice del successo, tanto che Mussolini in persona da una lista di otto nomi sceglie il suo per affidargli le musiche della messa in scena a Firenze del Savonarola di Rino Alessi. Nel frattempo però, qualcosa sta accadendo: il suo amico Gieseking, naturalizzato tedesco, si è iscritto al Partito Nazionalsocialista e gli comunica che non potrà più eseguire le sue musiche in pubblico, sebbene gli confessi per lettera che a casa suona i suoi corali ebraici che trova sublimi. Tempo due anni, la sua musica comincia a essere respinta anche dalla radio e dai teatri italiani. Le disposizioni sulla razza del 1938 gli piombano sulla testa. Alessandro Pavolini, amico d’infanzia, non risponde più alle sue richieste di chiarimenti. Nel 1932 Castelnuovo-Tedesco non aveva firmato il sussiegoso “Manifesto dei musicisti italiani per la tradizione dell’arte romantica dell’Ottocento” e la cosa non era passata inosservata. Con Pavolini, già anni prima, si era scontrato allorquando il gerarca gli aveva rimproverato “le lodi alla Grecia e alla civiltà decadente” mentre lo esortava a essere il primo di quella che sorgeva, “civiltà neo-romana, fatta di potenza e di conquista”; lui replicò che preferiva essere “l’ultimo musicista di una civiltà che aveva amato e ammirato, piuttosto che il primo di una nuova con la quale non sentiva alcuna affinità”. Risultato: amicizia revocata. 

 

Sembra che le cose per lui siano ancora salvabili quando il 18 marzo 1938 la radio trasmette il concerto delle musiche mai eseguite scritte per Pirandello, ma è un fuoco fatuo, perché il 2 settembre le prime pagine dei giornali riportano le disposizioni che escludono i bambini ebrei dalle scuole. Si trovava in quel momento alla Stazione Centrale di Milano con suo figlio: decide su due piedi di lasciare l’Italia. Il clima era tale che l’amico e collega Alfredo Casella, dovendosi recare a Firenze dove regolarmente era loro ospite, gli scrisse avvertendolo che questa volta lo avrebbe incontrato soltanto “in una casa neutrale e ariana”. 

 

Ci vorrà quasi un anno per ottenere i documenti e imbarcarsi a Trieste sulla “Saturnia”: “Un dolore fisico”, scriverà nelle sue memorie, “una mutilazione, la prova generale della morte”. E invece comincia una nuova vita. Sbarcano a New York grazie all’affidavit di Jascha Heifetz, forse il più celebre violinista al mondo, scappato a sua volta dai nazisti. Segovia, che si era speso contro i franchisti e non poteva più mettere piede a Granada, è invece riparato a Montevideo in Uruguay: negli ultimi mesi italiani, nonostante le angosce, Castelnuovo-Tedesco ha scritto per lui quello che sarà uno dei suoi pezzi più famosi, il Concerto in Re per chitarra e orchestra. Un pezzo sorprendentemente gioioso perché, disse, “l’arte non sempre rispecchia l’esistenza”. Tutti lo aiutano, gli chiedono musica, lo pagano mille dollari a pezzo, ma New York lo stanca presto, vi rivede le stesse beghe, intrallazzi e invidie che aveva conosciuto in patria. Partono per la west coast e così inizia la seconda vita di un uomo che credeva di aver perso tutto e che, come Voltaire (una delle sue letture preferite insieme ai sonetti di Shakespeare), capì che la felicità era letteralmente coltivare il proprio giardino, quello californiano della casa di South Clark Drive 269. Non sapeva che ce ne sarebbe stata una terza, di vita: la nostra, che ora assaporiamo i suoi frutti.

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