
Più Beato o più umanista?
Fra Giovanni, pittore di luce e santi, messo nella giusta prospettiva
Una doppia grande mostra a Palazzo Strozzi e al convento di San Marco, la sua “casa”. Un artista metafisico e rinascimentale che affascina i moderni . Ma non riusciamo a comprenderlo
Ci era venuto quasi come in pellegrinaggio, tre volte, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e la parola pellegrinaggio è davvero giusta trattandosi di un convento, e quale convento. La casa di Fra Giovanni, San Marco a Firenze. Mark Rothko era affascinato dalla luce quasi soprannaturale che emana dalle tavole e persino dagli affreschi in penombra dentro le celle dipinte per i suoi fratelli domenicani da Giovanni da Fiesole, per tutti il Beato Angelico. Affascinato da quel “luogo”, che non è più convento e non è soltanto museo, è il luogo dell’arte più intima e spirituale di Fra Angelico.
Il grande artista lituano-americano protagonista del Color field painting cercava qualcosa di insondabile, nella pace che emana da quella antica pittura sospesa tra gli splendori del gotico e la perfezione del Rinascimento, fatta in essenza di luce e colore (disegnava poco l’Angelico, anche per preparare gli affreschi). Rothko cercava un maestro, c’è una foto che lo ritrae nella cella 1, quella del Noli me tangere, mentre prepara sul pavimento un rettangolo di colore oro fin quasi a specchiarsi, fino a un’idea che diventerà importante per la sua arte, la “breathingness”, la “respirabilità” dei colori, sottili come gli apparivano i fondi aurei e le sfumature (e tutti quegli incredibili bianchi: è difficile dipingere il bianco) dei muri affrescati dall’Angelico. Rothko cercava qualcosa di spirituale, o il valore assoluto del colore? Domanda inevitabile.
Guido “Guidolino” di Pietro, nato a Vicchio nel Mugello, poi divenuto Fra Giovanni da Fiesole quando si unì al movimento osservante dei domenicani nel convento di San Domenico, e il nome gli bastò per tutta la vita, non gli serviva altra fama; benché ancora vivo, o appena dopo la morte a Roma, nel convento dei domenicani alla Minerva, fosse già per tutti diventato il Beato Angelico. Beato nella vox populi (che è vox Dei) per la sua vita pia e possiamo immaginare felice di povero cristiano. O per meglio dire, fu il solito Vasari nelle sue Vite ad aggiungere l’aggettivo “Angelico”. Il che fu un po’ la sua fortuna e un po’ la sua condanna critica: ci vollero secoli per riconoscere che Fra Giovanni da Fiesole è stato non solo un pittore di sacre immagini, l’ultimo degli antichi, ma anche un grande iniziatore del Rinascimento. Un artista di prima grandezza.
Si è aperta ieri a Firenze, fino al 25 gennaio 2026, una gran mostra. Non solo per dimensioni – 140 opere, i prestiti da oltre 70 musei e collezioni, “inimmaginabili, praticamente impossibili” – e divisa, o per meglio dire raddoppiata, in due sedi prestigiose: Palazzo Strozzi e ovviamente il Museo Nazionale di San Marco. Palazzo Strozzi, attraverso la Fondazione diretta da Arturo Galansino, è stato il motore di un lungo e prezioso lavoro (quattro anni) di ideazione e curatela, condivisa con un museo nazionale di diretta gestione del ministero della Cultura. Buone pratiche che funzionano. Del resto non capitava da settant’anni – dalla doppia mostra divisa tra Firenze e il Vaticano benedetta da Pio XII per i cinquecento anni dalla morte, nel 1455 – che in in Italia si realizzasse una congiunzione astrale simile. Ad esempio la possibilità che ha dell’incredibile, spiega il curatore Carl Brandon Strehlke – insigne tra gli esperti dell’Angelico, specialista della pittura tardogotica e rinascimentale italiana, curatore emerito del Philadelphia Museum of Art – di vedere ricomposta per quanto possibile (17 su 18 pezzi) la grande Pala di San Marco, eseguita da Beato Angelico su commissione di Cosimo il Vecchio intorno al 1438, primo cruciale esempio di pala rinascimentale. Era stata smembrata alla fine del Seicento, per la prima volta è ricomposta. Oppure la Pala della Compagnia di San Francesco in Santa Croce, da poco ripulita dall’Opificio delle pietre dure. Più altri capolavori prestati da vicino, come lo straziante Cristo come Re dei Re, opera degli anni maturi, conservata nel duomo di Livorno o la giovanile Crocifissione Griggs (1418-1420) dal Metropolitan di New York. Poi la quantità di predelle recuperate e riallestite. O il piccolo disegno ad acquerello, un unicum, del Cristo deposto conservato al Fitzwilliam Museum di Cambridge: si tratta di un abbozzo per la Deposizione Strozzi da Santa Trinità, che apre con magnificenza la prima sala di Palazzo Strozzi.
Ce n’è di che godere della passeggiata tra il palazzo rinascimentale e il Museo di San Marco, ce n’è in abbondanza per mettere in nuova luce il grande pittore, non che avesse bisogno di riscoperte. Forse addirittura più amato dal pubblico straniero, da sempre appassionato dei nostri “fondi oro”, come racconta Stefano Casciu, direttore per la Toscana dei Musei Nazionali del ministero della Cultura e co-curatore della mostra con lo storico Angelo Tartuferi, che tra le celle del convento dell’Angelico ha accompagnato spesso artisti che immagineremmo lontanissimi dalle sacre immagini; da un (preparatissimo) Mick Jagger a Marina Abramovich. Ma l’ambizione culturale dell’operazione fiorentina, oltre agli aspetti filologici e scientifici (sono ben 28 i restauri, molti dovuti al mecenatismo di Friends of Florence), è quella di rispondere a una domanda: se il Beato Angelico ha partecipato, se è stato protagonista, della “rivoluzione delle arti” del Rinascimento che fioriva nei suoi anni nella sua città. “In questa mostra intendiamo affermare che sì, Fra Giovanni vi ha partecipato”, risponde nel catalogo Carl Brandon Strehlke.
E’ la domanda, per nulla retorica, che si fece Elsa Morante nel 1970 in un celebre vibrante saggio intitolato “Il beato propagandista del Paradiso”. In cui con mirabile affetto e insieme la precisa misura di una incolmabile distanza da quella beatitudine, per noi moderni, scriveva: “La povera mia (nostra) lingua materna è cresciuta nella fabbrica deformante delle città degradate, fra le lotte evasive dei meccanismi schiavistici, e le ripugnanti, continue tentazioni della bruttezza… forzata, fino dall’infanzia, a frequentare i gerghi obbligatori dell’irrealtà collettiva”. E si chiedeva “come potrà, dunque, una nel mio-nostro stato, non dico capire, ma perdonare quella lingua beata e angelica? Forse, le mie resistenze al Beato pittore sono colpa, soprattutto, della mia invidia. In realtà, più che nel significato di ‘santo’, qui, a me, ‘beato’ suona piuttosto in quello di ‘fortunato’, o ‘beato lui’”. La nostra epoca, la nostra cultura, diceva Morante, è orfana di quei Padri, “tutti santi, e tutti domenicani” che invece il pittore dai tre nomi, Guidolino, Giovanni, Angelico ha avuto per maestri: “Negli scritti del Doctor Angelicus si legge: ‘Niente è nell’intelletto, che non sia stato prima nei sensi’.
E naturalmente gli occhi fortunati di Guidolino di Pietro si sono aperti per la prima volta su una veduta dove lui poteva immediatamente riconoscere un modello sensibile del Paradiso”. Ma una risposta acutissima alla sua stessa domanda Elsa Morante se la dava, ed è ancora di aiuto a togliere dai nostri occhi quell’idea opaca che vorrebbe confinare le immagini dell’Angelico nel recinto dell’arte religiosa e ad aiutarci invece a riconoscere un Angelico più umanista e meno beato. Scrive Morante dei grandi artisti di cui, silenziosamente ma evidentemente, Fra Giovanni incrocia la strada: “E in quanto alla nuova scienza dei pittori suoi coetanei, s’intende che lui la impara: ringraziando, anzi, il suo primo e unico amore (la luce)… Lui sa che questi suoi compagni rivoluzionari sono destinati a strumenti della luce, come lui. Sua sola differenza da loro: lui conosce l’ultima destinazione, promessa a lui dalla luce innamorata. E non vuole ritardarla”.
Dunque ultimo dei pittori devozionali, di quelli addetti a realizzare “le dipinture devote… le quali sono dette ‘libri degl’idioti’” – come lo ammoniva il suo maestro di fede e di vita domenicana, il teologo e abate di San Marco e poi vescovo e santo, Antonino Pierozzi – oppure uno dei grandi pittori che hanno traghettato l’arte nella novità del Rinascimento? Sono tanti e affascinanti gli spunti che possono aiutare a dare risposta. La mostra parte idealmente, almeno per cronologia, dalla “casa” di Fra Giovanni, il suo “luogo” in San Marco. Dove al piano terreno nel chiostro, nella grande sala che normalmente ospita una parte cospicua dei capolavori su tavola di Fra Giovanni – e che in parte si sono trasferiti nelle più ampie stanze di Palazzo Strozzi – sono ora esposti alcuni dei suoi lavori giovanili. Nato attorno al 1395, va ricordato infatti che “Guidolino” prenderà i voti solo attorno al 1420, età matura all’epoca, ma aveva intrapreso la via della pittura molto prima. Si apre dunque con la Pala di Fiesole, un trittico che è stata una delle opere del suo ingresso nel convento di San Domenico a Fiesole; ma ancora prima, attorno al 1415, artista ventenne aveva dipinto la Tebaide ispirata alla tradizionale iconografia dei santi Padri eremiti dell’antico Egitto, ma trasportati in un dolce panorama toscano che a lungo ha fatto pensare i critici alle campagne di Ambrogio Lorenzetti. E in fondo alla sala ecco lo strepitoso, enorme Tabernacolo dell’Arte dei Linaioli databile al 1430, che non s’è mosso dal suo luogo consueto, e che ha nelle figure e nelle predelle la potenza di un Masaccio molto ben interpretato. Incastonato in una cornice marmorea monumentale del Ghiberti, il tabernacolo è rimasto per secoli nella umile e trascurata sede dei tessitori di tele.
Al centro una Madonna in trono in uno splendore di ori che non sono più solo sfondo, ma pura luce e linee di spazio, e un contorno di angeli musicanti paradisiaci nelle forme e nella varietà dei colori. Degli esordi e degli anni giovanili dell’artista si sa poco, addirittura un solo documento certo, un pagamento di dieci lire per una croce dipinta, racconta Angelo Tartuferi, direttore emerito del Museo di San Marco e storico tra i più esperti della pittura toscana tra Trecento e tardogotico. Sappiamo che la sua prima opera certa è la Madonna dell’umiltà ora all’Ermitage, 1415, a soli vent’anni. Ma gli “sguardi” del futuro frate pittore all’arte di Masaccio, il “Giotto rinato”, così come la conoscenza della rivoluzione spaziale di Brunelleschi sono evidenti. Insomma non certo una giovinezza appartata e inconsapevole, anche se a parlare per lui saranno solo e sempre le immagini.
Si sale al primo piano, ai corridoi delle celle rimasti pressoché sconosciuti ai profani fino alla soppressione napoleonica del convento, come racconta nel catalogo (Marsilio Arte) Marco Mozzo, direttore del Museo di San Marco, “per secoli sono stati fondamentalmente al di fuori del dibattito culturale”. Una “reclusione conventuale” che però, sottolinea Stefano Casciu, non ha impedito ad artisti come Manet o Degas di conoscere e studiare quel ciclo d’affreschi. Entrare è scoprire il luogo più intimo dell’arte di Fra Giovanni. La scala monumentale che oggi mette davanti agli occhi del visitatore la celeberrima Annunciazione nel corridoio nord un tempo non esisteva. I frati predicatori di san Domenico vi sfilavano a fianco per raggiungere le celle. Per intuire la dimensione puramente religiosa che era affidata a quelle sacre visioni bastano le parole che l’Angelico volle scritte al piede dell’affresco: “Quando passerai davanti alla figura della Vergine intatta, ricordati di non lasciare silenziosa l’Ave”.
Ma Fra Giovanni non era un mistico inconsapevole, e tutt’altro che estraneo al mondo in grande evoluzione in cui viveva, ben cosciente del fervore culturale e religioso e del cambiamento politico di quegli anni, dopo la fine nel 1417 dello scisma d’Occidente che tanto aveva travagliato anche Firenze; finalmente una chiesa e una società riunita dall’abile e diplomatico nuovo Papa Martino, che a Firenze aveva vissuto per di più nel convento dei domenicani di Santa Maria Novella. Nel nuovo clima fiorentino, Guidolino si unì al movimento dei domenicani osservanti. A San Domenico in Fiesole iniziò una bottega in grado di produrre presto opere ammirate. Nota acutamente Strehlke che non doveva parere poi strano, ai confratelli di Fiesole, recitare “l’Ufficio davanti alla Pala dell’altare maggiore”, ora nota come Pala di Fiesole, mentre “la Compieta veniva recitata davanti all’Annunciazione ora del Prado”, oppure alla Incoronazione della Vergine del Louvre. La potenza dell’ordine domenicano era affermata ma Fra Giovanni, pur consapevole del proprio status, rimase per tutta la vita fedele alla scelta di farsi pagare, anche dalle committenze laiche e ricche, in natura e a beneficio del convento. Per la grande Deposizione della Pala Strozzi di Santa Trinità – “un tableau vivant delle generazioni Strozzi” (Strehlke), fu pagato con 27 barili di vino consegnati al convento di San Domenico di Fiesole. Per lo struggente Compianto su Cristo Morto – una pala commissionata dalla Compagnia dei Neri, che all’interno di una confraternita assolveva in segreto il compito pietoso di assistere i condannati a morte – ricevette sessanta staia di grano, sempre destinate al convento.
La vita dell’ordine cambiò, e la sua almeno di domicilio, quando Cosimo il Vecchio, il “Pater patriae”, decise di farsi gran mecenate e protettore dei domenicani, raddoppiando il convento di Santa Maria Novella. Nel 1437 commissionò la ristrutturazione di un convento in San Marco al suo architetto Michelozzo, che trasformò l’antico edificio nel capolavoro rinascimentale che conosciamo, compresa la preziosa biblioteca. Non è dato sapere se facesse parte del progetto, ma le ampie pareti del chiostro e del capitolo, e soprattutto i lisci corridoi delle celle furono come una tela bianca stesa, o giornate e giornate d’intonaco pronte all’affresco e messe a disposizione di un unico artista. Furono il luogo libero su cui Fra Giovanni stese il suo genio, la sua luce, i suoi spazi perfettamente concepiti nelle cosmogonie celesti di Tommaso, di Alberto Magno, del futuro sant’Antonino e delle storie sacre, ma al tempo stesso perfettamente inscritte negli spazi razionali della nuova epoca. Michelozzo costruì per l’artista “il Luogo”. Ed è ancora quello. Ma la storia di San Marco che vediamo oggi, e vedranno i visitatori, non è solo quella. A determinare la fine del convento, la grande diaspora di una quantità di tavole e piccole predelle delle pale smembrate, ma in fondo anche il successo collezionistico in tutt’Europa delle opere di Beato Angelico furono le soppressioni di ordini e conventi, quelle leopoldine prima e quella napoleonica dopo. E la seguente spoliazione delle opere d’arte. Rimasero al loro posto, nelle chiese o ricoverate a San Marco, soprattutto le grandi pale d’altare, difficili da spostare e inadatte a un collezionismo assai interessato. Fu dopo l’Unità che San Marco divenne museo, e lentamente divenne ciò che è ora, la “casa” di Beato Angelico.
La doppia mostra, oltre che il risultato di un lavoro di squadra eccellente, è dunque l’occasione, anche per un pubblico non specialistico, di comprendere meglio la centralità di un artista nel momento di una grande trasformazione culturale. Ma, lasciando per un attimo da parte l’arte di Guido di Piero, è anche l’occasione per una riflessione più generale: e cioè che oggi in Italia poche istituzioni, al pari di una Fondazione pubblico-privata ben funzionante come Fondazione Strozzi, avrebbero la forza di realizzare un’operazione così grande, ovviamente costosa; non certo i musei pubblici nazionali, ancora sottostrutturati e sottofinanziati nonostante le riforme, né tantomeno le istituzioni che inseguono solo i blockbuster. Nella città afflitta dall’overtourism, o dalla narrazione dell’overtourism, Strozzi vanta numeri importanti ma, dato interessante, spiega Galansino, non provenienti dal turismo fiorentino mordi e fuggi, o standardizzato: bensì un pubblico che viene per le mostre di Strozzi, spesso dedicate al contemporaneo, o che quando si dedicano al Rinascimento (Donatello, Verrocchio) puntano a grandi formati. Una mostra come “Beato Angelico” non sarebbe possibile senza un insieme di interlocutori di primo livello; Fondazione Palazzo Strozzi, Mic, la direzione regionale Musei nazionali Toscana e il Museo di San Marco. E sostenitori pubblici e privati come il Comune di Firenze e la Regione Toscana, la Fondazione CR Firenze, la Fondazione Hillary Merkus Recordati e main sponsor come Intesa Sanpaolo. Un esempio di come fare sistema nel mondo non semplicissimo delle produzioni e dei musei. E a proposito di arte contemporanea: la prossima avventura sarà dedicata proprio a Rothko, ovviamente ancora in partnership con San Marco.
Per capire cosa significhi radunare prestiti internazionali di questo spessore e ricomporre ciò i secoli hanno smembrato bisogna entrare nelle sale del palazzo, dove il benvenuto della Pala Strozzi, con la Deposizione, che è anche un trattato rinascimentale per immagini sulla rappresentazione del potere cittadino, apre le porte a numerose sorprese. Tra tutte la Pala di San Marco ricomposta per la prima volta. Con le parti provenienti dal Louvre, dalla National Gallery di Washington, la National Gallery of Ireland di Dublino, dall’Alte Pinakothek di Monaco. E’ la grande opera che Cosimo il Vecchio commissiona subito, per la chiesa del nuovo convento, a sancire l’alleanza dei Medici con i domenicani; ma vuole che nelle predelle siano narrate le storie dei santi Cosma (Cosimo) e Damiano (il nome di un fratello). Le storie del loro martirio sono magnifiche sorprese d’inventiva narrativa. Si passano le sale da bellezza a bellezza, dalla Incoronazione della Vergine degli Uffizi, trionfo della raffinatissima tecnica nell’utilizzo dell’oro come materia spaziale, dall’Annunciazione di Montecarlo ai grandi Crocifissi sagomati che raccontano la pietà devozionale della Firenze d’inizio secolo.
Ma il mistero di cosa sia l’arte di Beato Angelico rimane, come rimaneva per Rothko e per Elsa Morante. La sua distanza quasi sopra-naturale dalla semplice rappresentazione ha sempre esercitato un fascino e ha fatto di lui un artista speciale. E’ probabilmente falsa la narrazione di quell’inventore di miti che fu Vasari, secondo cui Fra Angelico si inginocchiava e pregava sempre prima di prendere i pennelli. Ma che ci sia qualcosa di sacrale che emana dalla sua pittura è innegabile. Un raffinato filosofo e semiologo francese, Georges Didi-Huberman, specialista della filosofia medievale e dell’arte italiana, in un suo libro denso ed erudito ma pieno di spunti affascinanti, “Beato Angelico - Figure del dissimile”, ha provato ad addentrarsi alla ricerca del “quid” che rende diverse le “figure” di Beato Angelico. Così perfettamente rispondenti alla teologia domenicana in cui è cresciuto e a cui voleva dare forma visiva, ma così pienamente inventivo e moderno. “Figure”, appunto, in senso tomistico, spiega: personaggi e fatti, ma anche luoghi e materia naturale, che sono ciò che appare agli occhi ma sono anche rimando a una trascendenza eterna. E come tali vanno non solo guardati, ma contemplati. Fa una straordinaria scoperta, Didi-Huberrman, proprio nella prima cella di San Marco, quella della fotografia di Rothko, il Noli me tangere.
Scopre che i fiori del prato (il giardino del sepolcro e insieme anche il nuovo giardino dell’Eden) non sono buttati lì per caso. Sono dipinti in un modo sorprendente e “dissimile”, non naturalistico: “Sono macchie, più o meno regolari, fatte con il bianco di San Giovanni e, al di sopra, con il rosso. E’ un colore vivace, una terra rossa, che produce sulla parete leggerissimi rilievi; l’effetto ritmico di scansione ne risulta accentuato”. Ma il filosofo dei segni nota come anche le stigmate sul piede di Cristo appoggiato sul prato a poca distanza siano dipinte “esattamente alla stessa maniera”. E i fiori sono a gruppi di cinque, proprio come cinque sono le piaghe di Gesù. Didi-Huberman lo chiama uno “slittamento del segno iconico”. Cioè, arriva a dire con sorprendente intuizione su un’arte che si fa mistica, “posso senz’altro affermare che le stimmate di Cristo, secondo il Beato Angelico, sono i fiori del suo corpo”. E’ la potenza di una simbologia figurale coerente, che viene dal medioevo e dalle Scritture anche se riscritta nello stile moderno (Didi-Huberman arriva a immaginare una parentela tra quei fiori buttati lì come macchie di colore e l’Action painting di Pollock). Altro che devozionalismo tardogotico, nulla qui è a caso. Ma, come direbbe Elsa Morante, è il nostro sguardo opaco viziato dalla bruttezza e dall’istintività a non saper vedere quel che Fra Giovanni voleva che i suoi fratelli contemplassero.
Per occhi più moderni, ma non distratti, ci sono però in questa doppia mostra alcune meraviglie, spesso a incantare sono i dettagli. Il martirio di Cosma e Damiano come una favola antica, le oltre 30 tavole dell’Armadio degli Argenti dell’Annunziata ora esposto a Strozzi, un autentico storytelling scritturale narrato con una libertà di toni e di stili ineguagliabile. Ma l’occhio vuole farsi rapire anche da certe macchie di colore, certi ricami d’oro, di tessuti, dall’imitazione di marmi o dettagli naturali. Dai sorrisi di alcuni angeli, angelici. Ma anche dalla straziante potenza del Cristo come Re dei Re, magnetico nel suo dramma.
Finì a Roma il suo viaggio terreno, al servizio dei Papi e a misurarsi con grandi commissioni di prestigio, come la Cappella Niccolina in Vaticano. La sua tomba, molto venerata, è nella chiesa della Minerva a Roma, casa madre dei domenicani. Per la sua sepoltura l’umanista Lorenzo Valla scrisse versi in latino: “Non mi si ascriva a lode ch’io fui come un secondo Apelle / ma che diedi tutti i miei beni, o Cristo, ai tuoi”. Quel grande affabulatore di Vasari gli diede il nome di Beato Angelico. Giovanni Paolo II lo prese in parola, il 3 ottobre 1982 lo fece beato e patrono degli artisti.