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Lou Salomé, libera di amare
Una donna complicata, decisamente fuori dal comune. Sempre definita come “amica” o “amante di”, è stata protagonista intellettuale tra Otto e Novecento. Filosofia e poesia: “Il meglio, dopotutto, è ancora la morte”
Complice quel nome da Café Chantant, Lou Salomé, abbiamo di lei un’idea leggera, e siccome era bella, molto bella, e si concedeva tutti gli uomini che le piacevano, eccola lì inchiodata al ruolo di femme fatale. Era tempo di riconoscerle i giusti meriti anche in Italia, già scandagliati per essere precisi dal femminismo e in particolare da Nadia Fusini. Ora lo fa, scrivendone una corposa biografia, la filosofa Susanna Mati, studiosa del mito e di Nietzsche, di Hölderlin, di Novalis, col documentatissimo volume, pubblicato da Feltrinelli, Lou Salomé. Amare la vita. Ne viene fuori un ritratto molto affascinante e soprattutto la scoperta che a far innamorare di lei, a volte fino alla disperazione, tanti geni del suo tempo, artisti, scrittori, poeti, filosofi… non furono tanto i suoi occhi azzurri e i capelli biondi, la figura snella e imponente, ma piuttosto l’unicità stravagante del suo essere intero, fisico e mentale, l’originalità delle sue scelte coraggiose e controcorrente, la cultura sterminata, la capacità di dibattere alla pari con i grandi intelletti che le capitò di conoscere, senza mai passare inosservata. E infatti conservò questo suo fascino unico per tutta la vita, anche quando – ormai anziana – aveva perso i lunghi capelli e la linea, ma non il tempestoso, arguto, convincente incedere del pensiero.
E allora cominciamo a restituirle quanto le spetta spostando prima di tutto l’accento del suo cognome: diciamo Sálome, come vuole la lingua tedesca con la esse che è una zeta dolce e vediamo quanto ricca è stata – non solo per gli uomini con cui viene definita: l’amica di Nietzsche, l’amante di Rilke… – la personalità, e l’esistenza, di questa donna complicata, decisamente fuori dal comune negli anni di enorme cambiamento artistico, scientifico e sociale che furono quelli a cavallo fra Ottocento e Novecento.
Louise Gustavovna von Salomé nacque a San Pietroburgo il 12 febbraio del 1861, unica femmina tra sei fratelli, figli di un generale russo, ma la famiglia vantava doppia discendenza tedesco-baltica e francese e il francese e il tedesco furono le lingue in cui crebbero i piccoli Salomé, relegando il russo ai banchi scolastici. Louise, detta Lou, era la più piccola, particolarmente legata ai fratelli, di cui tre morirono giovani, e al padre del quale era la preferita, ma che perse a soli diciott’anni. La morte del padre, venerato come un dio, coincise per lei con la perdita della fede. Era per altro una ragazza ribelle, metteva sopra ogni cosa il valore della sua libertà, donna egocentrica e consapevole della profonda diversità dai modelli femminili dell’epoca. Quando il suo primo venerato maestro, il coltissimo teologo e predicatore Hendrik Gillot, le chiederà di sposarlo per far rientrare nelle regole l’allieva recalcitrante di cui si è perdutamente innamorato, la risposta di Lou sarà un chiaro no e la fuga. E non perché non lo ricambiasse, ma perché i “padri” dovevano restare tali, non trasformarsi in mariti, e il suo valore supremo, l’indipendenza, sarebbe stato comunque tarpato da un matrimonio. Dunque il secondo Dio della sua vita venne rinnegato, come gli scrisse in una poesia: “Attraverso te la mia silenziosa esperienza divenne: / vedere il Dio – e seppellirlo”.
Una fuga dal potere maschile che è solo la prima di una lunga serie. Il motto della giovane Lou è: “Se vuoi una vita, rubala!” Lei è innamorata della cultura soprattutto, e si trasferisce a Zurigo per studiare all’università tutto quello che più le interessa: filosofia, metafisica, logica, storia delle religioni, psicologia. Non vuole conquistare nessuno. E’ trascurata nel vestire, da sempre ha eliminato i corpetti preferendo vestiti comodi. Non si trucca e si acconcia i capelli alla bell’e meglio. Eppure gli uomini s’innamorano pazzamente di lei, di questa donna fuori canone che forse sognano di domare, ma Lou cerca soltanto “padri”, da cui continuare a imparare e “rubare la vita”. Il sesso non le interessa, non con maschi più grandi di lei e sicuri di sé, apparentemente risolti. Di fronte alle loro profferte amorose, mette subito in chiaro: tenerezza sì, rapporti sessuali niente. Questa anomala seduttrice, infatti, resterà vergine fino ai quarant’anni, quando nella sua vita entra un giovane fragile, nevroticissimo poeta, Rainer Maria Rilke, per il quale sarà madre e amante travolgente. Ma questo succederà quando s’incontreranno, il 12 maggio del 1897 a Monaco di Baviera.
Prima c’è un altro pezzo di vita consegnato al mito: l’amicizia con il bellissimo, intenso Friedrich Nietzsche. E a lei piace accompagnarsi con uomini belli e intensi. Intanto compone poesie, scrive un romanzo, saggi critici. A Roma ha conosciuto la sessantenne pioniera dell’emancipazione femminile, Malwida von Meysenbug, che riconosce in Lou una “femminista naturale”; diventano amiche ma non c’è verso di convincerla a partecipare al movimento. Lou non vuole sistemarsi sotto nessuna bandiera, lotta per la sua propria indipendenza, delle altre non le importa. Come non intende accettare il consiglio di Malwida di sposarsi quando nella sua cerchia conosce Paul Rée, col quale ha messo subito in chiaro che non avranno un rapporto d’amore, ma solo di amicizia, anche se le amicizie di Lou hanno sempre qualcosa di erotico. E così sarà con Nietzsche, amiche di Rée, per il quale Salomé resterà l’unica donna di cui ha potuto innamorarsi fino a chiedere, sembra, la sua mano. Ma Lou vuole difendere la loro Trinità di amici che possono vivere e lavorare insieme, senza gelosie né possessività. Un progetto impossibile, anzi dalle ripercussioni deleterie per la psiche malata del filosofo, che coltiverà un odio irriducibile per il rifiuto ricevuto, o quello che lui reputa tale. La celebre foto che li vede insieme, Lou, Paul e Friedrich, lei dentro il carretto con la frusta in mano e i due uomini in piedi davanti come cavalli, voleva essere nelle intenzioni di lei soltanto spiritosa, ma come sempre non si curava delle ripercussioni negative che poteva avere sulla psiche altrui.
Che Lou fosse anche, con sorprendente leggerezza, molto contraddittoria è un altro aspetto del suo carattere determinato, ma fanciullesco. Così non ci si deve stupire se a un certo punto vediamo il suo nome arricchirsi di un altro cognome, quello del marito, l’orientalista Carl Andreas di quindici anni più grande di lei col quale si fidanza alla fine del 1886, spezzando il cuore del compagno Rée con cui conviveva, senza intimità, e col quale avrebbe continuato il rapporto se anche lui fosse stato dello stesso parere. Ma Paul non lo è e il suo amore per Lou si trasformerà in astio, tanto che non vorrà vederla mai più fino alla morte, avvenuta nel 1901 per una caduta in montagna, da qualcuno interpretata come suicidio.
Anche con Carl, quando le chiede di sposarlo, mette in chiaro che il loro sarà un matrimonio bianco. E terrà fede al proposito per sempre. Cosa la fa capitolare rispetto alle nozze? L’indipendente Lou ama la solitudine, ma – come dire? – in compagnia: ognuno nella sua stanza; insieme ma indipendenti, liberi di avere altri amori, altri interessi, altre avventure. E quando un giorno Andreas avrà una relazione con la cameriera e una bambina da lei, Lou con coerenza l’accetterà (purché ognuno nel proprio spazio, nella stessa casa). Di Carl le è sempre piaciuto il suo essere “tenerissimo, quasi inerme” eppure a momenti brutale, “potentissimo”. Litigano molto e molto si vogliono bene. Fra loro passa un affetto da padre e figlia, di infinita dolcezza, che si coglie in una fotografia dove lei gli appoggia la testa sulla guancia e fissano l’obiettivo stretti e appagati. Di sé diceva di essere una chiocciola con la casa addosso. Anche durante i lunghi viaggi che si concedeva con e senza il marito, il momento più bello era il ritorno nella loro casetta sopra Gottinga, isolata, dove restarono entrambi fino alla morte. Avvenuta, quella di Carl, a ottantaquattro anni nel 1930, quella di Lou sette anni dopo settantaseienne. E nella vecchiaia trovarono una sintonia e una tenerezza, ancora più forte di quelle conosciute fin lì.
Ma il mito di Lou Salomé non sarebbe così forte senza un’altra sua famosa storia d’amore, e questa volta fatta di spirito e di corpo. Quella con Rainer Maria Rilke che forse, se non l’avesse incontrata, più difficilmente sarebbe riuscito a esprimere la grandezza poetica cui era destinato. S’incontrano a Monaco, presentati da comuni amici nel maggio del 1897, il ventunenne René (sarà Lou a ribattezzarlo Reiner: vuol dire “il più puro”), che la conosce e l’apprezza già per i suoi scritti e la sua fama, e la trentaseienne Lou che avverte subito in lui la grande fragilità mista a una potente carica sensuale, e si pone come madre, guida, Maestra. Salomé aveva del maschile, scrive la biografa Mati, l’idea che fosse “una galassia eccitata e alienata” a cui le donne sono superiori per “armonia, pienezza, gioia di vivere”, ma ai poeti riconosce una vicinanza al femminile che la rende aperta alle emozioni. Lui si aggira per la città con un mazzo di rose da regalarle sperando d’incontrarla, lei non avrà nessun freno a buttarsi fra le sue braccia. E gli insegna il russo e lo spedisce in Italia a studiare e lo incoraggia a diventare il grande poeta che è destinato a essere. Si riconoscono fratello e sorella, madre e figlio, amanti in un’unità inscindibile. (Per inciso, è un’occasione per rileggere Rilke la nuova edizione di Castelvecchi delle Elegie duinesi e delle Poesie scelte 1897 e il 1926. Con quanta gioia ascolto le cose cantare tradotte da Ulderico Pomarici e, sempre a cura di Pomarici, i quattro requiem di Le api dell’invisibile, edito da Arte’m).
Insieme viaggiano molto, ma Lou è Lou e dopo quattro anni di relazione è esausta. Le manca la libertà, la solitudine nella sua casetta all’ultimo piano nel casale col marito e con la famiglia di lui, ma ognuno nei suoi spazi, gli attacchi di panico di Reiner la consumano, la sua dipendenza da lei. E anche se si riconosce “un mostro”, mette fine al rapporto scrivendogli: “Come una veggente so e ti grido: vai per questa stessa strada [quella della libertà], incontro al tuo dio oscuro! Egli potrà per te ciò che io non posso più”. La risposta di lui è in versi, disperata: “Sono nelle tenebre e come cieco / perché il mio sguardo più non ti ritrova… / Sei stata il sublime che mi ha benedetto/ e diventasti l’abisso che mi ha divorato”. Però lei gli garantisce di esserci sempre per lui, e manterrà fede all’impegno. Perché, anche se diceva di sé di essere fedele agli animali, ma non alle persone, per Rilke conservò fino all’ultimo della breve vita del poeta un affetto protettivo, pur attraverso gli altri amori di entrambi che si susseguiranno tragici o festosi. E Reiner le dedicherà Le elegie.
Passioni a parte, che non si nega fino alla tarda età, comincia a questo punto per lei l’esperienza più significativa. Si avvicina a Freud e alla psicoanalisi diventando analista lei stessa. Nella celebre affollata foto del terzo Congresso di Psicoanalisi a Weimar del settembre 1911, dove ci sono tutti i grandi della nuova disciplina, le donne, sedute in prima fila sono soltanto otto. Lou è la terza da sinistra, avvolta in una stola vistosa. Dietro di lei: Adler, Freud e Jung, che stanno per rompere sanguinosamente l’amicizia e la collaborazione. Malgrado l’attività di analista Lou se la passa male, soprattutto dopo la guerra, si ritrova in miseria, pesa 45 chili. Sarà Freud ad aiutarla anche finanziariamente, e con regolarità, oltre a trovarle pazienti, pur essendo lei un’indocile allieva, a volte addirittura vicina all’eresia junghiana, che non teme mai il confronto col suo peraltro venerato Maestro. Gli rivolge frasi come questa: “Nulla mi piace di più che lasciarmi condurre da Lei al guinzaglio – soltanto dev’essere un guinzaglio davvero molto lungo”. E Freud, che si riteneva un “vecchio orso”, discute con lei e ammette di esserle affezionato. Per non farla morire di freddo l’invita in inverno nella sua casa di Vienna, da cui lei può deviare un po’ di denaro verso la Russia per i nipoti, ridotti in povertà dopo la Rivoluzione. Diventa così molto amica anche della giovane Anna, la figlia di Freud, nonostante i trentaquattro anni di differenza, e l’appoggia nella sua scelta omosessuale.
Gli anni passano. Freud deve affrontare un doloroso cancro alla mascella, Lou l’operazione a un piede per le conseguenze del diabete. Si scrivono da lontano. Il tema dominante è la vecchiaia, mentre anche politicamente i tempi si fanno durissimi. Il nazismo arriva pure nella piccola Gottinga, dove vive Salomé. Freud le scrive: “Nelle profondità del mio essere rimango convinto che i miei cari simili – con qualche eccezione – sono delle canaglie”. E’ provato dall’età e dalla malattia: “In me è sopraggiunto il malumore della vecchiaia, la totale disillusione, paragonabile alla rigidità d’un paesaggio lunare, il gelo interiore”.
Lou, invece, resta un’inguaribile ottimista che vede il meglio persino nelle minacce che la circondano. Descrive a Freud momenti di felicità, come quando col marito ha disteso le “vecchie ossa al sole”. E continua: “Ci siamo detti che la vecchiaia possiede anche dei lati soleggiati che difficilmente si riesce a cogliere in altre stagioni della vita. In effetti, io mi spingo al punto di essere sempre curiosa di conoscere quali lati della vita ancora mi restino da sgomitolare, e quali sorprese ancora intrecciate mi possano cadere in grembo”. Una di queste sorprese è proprio una nuova vicinanza col marito, che sarà al suo fianco in ospedale durante l’intervento al piede: “Si sedeva nella poltrona accanto al letto a chiacchierare con me”, racconterà poi a Freud, dopo la morte di Andreas. “Noi, due vecchietti, ci accorgevamo di quanto avessimo da raccontarci, cosa per cui non avevamo mai avuto tempo prima”. Lei morirà nove anni dopo, il 5 febbraio del 1939, per le conseguenze di un cancro al seno, e le ultime parole furono, fedeli all’eterno ritorno nietzschiano: “Il meglio, dopotutto, è ancora la morte”. E un lungo necrologio fu scritto da Sigmund Freud: “…donna straordinaria…di rara modestia e discrezione… Chiunque l’avvicinasse riceveva un’impressione fortissima dell’autenticità e dell’armonia della sua natura e poteva asserire, non senza stupore, che tutte le debolezze femminili, e forse la maggior parte delle debolezze umane, le erano estranee o erano da lei state superate nel corso dell’esistenza”.