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Wanda Marasco vince il Premio Campiello: il coraggio del difficile tra memoria, follia e la parola come atto morale
La scrittrice napoletana ha ottenuto 86 voti su 282. La sua vittoria è un inno alla "resistenza alla semplificazione, al narcisismo autobiografico spicciolo, al memori travestito da romanzo", ci dice l'autrice
Venezia. Alla 63ª edizione del Premio Campiello – annunciato ieri sera sul palco del Teatro La Fenice della città lagunare - ha vinto una scrittrice che non concede nulla alla moda del momento, che non accarezza il lettore e non abbassa il tono della lingua per timore di sembrare troppo letteraria. Ha vinto Wanda Marasco, napoletana (già finalista allo Strega nel 2017), con un romanzo – Di spalle a questo mondo (Neri Pozza) – che non si legge in un pomeriggio e non si dimentica in una settimana. Un libro difficile, sì, ma nella difficoltà sta la sua necessità e bellezza. Un libro pieno di corpi, sangue, memoria, follia, e soprattutto di lingua: non quella media, neutra, iper-adattabile al formato social, ma una lingua alta e lirica, nervosa, impastata di dialetto e classicismo, a tratti tragica. Una lingua che, più che descrivere, evoca. “Ho molta gioia per questo premio, è come se mettessi un chiodo duro e morbido alla mia storia”, ci ha detto l’autrice, visibilmente emozionata. “Lo dedico a tutto ciò che in vita e in letteratura mi ha consegnato amore e conoscenza”.
La sua vittoria – ottenuta con 86 voti sui 282 inviati dalla Giuria dei Trecento Lettori Anonimi - è, in un certo senso, una vittoria della resistenza letteraria. “Resistenza alla semplificazione, al narcisismo autobiografico spicciolo, al memoir travestito da romanzo”, aggiunge lei. Il suo è infatti un libro che si mette di traverso, che chiede al lettore attenzione, ascolto e partecipazione. In poco più di quattrocento pagine, Marasco non racconta mai sé stessa, non ci chiede empatia, non ci chiama “fratelli” né ci invita a piangere in comune. E in questo ci affascina, spingendoci a restare lì dove fa male: nel dubbio, nel ricordo e nel corpo malato della Storia. “Vorrei che il mio libro lasci la speranza”, ha tenuto a precisare. “Sì, vorrei che il mio libro possa offrire la speranza nel pieno di questa catastrofe che stiamo vivendo. L’ho scritto perché ho sentito un’enorme responsabilità morale di dire una parola forte che avesse in sé una forza sinfonica capace di sensibilizzare e umanizzare. Quella parola è ‘scavo’: un termine che consente di interpretare il presente e che lavora sulla memoria per renderla atto vivente”. “Vorrei poi che il mio libro parlasse di saggezza, di etica e di amore”, continua. “La mia è una paura che condivido con tutta l’umanità ed è per questo che vorrei che queste pagine arrivino a quante più persone possibili per costruire un mondo migliore. C’è bisogno che torni l’umano, che ci sia una speranza di miglioria nella politica, nel suo servizio e non solo. Per farlo, è necessaria la cura che è un atto morale, poetico e politico insieme, un modo per non abbandonare l’umano nel momento in cui diventa più fragile, più oscuro e più insensato. Come i miei personaggi, anch’io voglio dare le spalle a un mondo fondato sulla corruzione, sull’esasperazione del potere, sull’oltraggio alla scienza e alla morale”.
La figura attorno a cui ruota il romanzo è quella, storicamente reale, del medico napoletano Ferdinando Palasciano (precursore della Croce Rossa, filantropo ante litteram), “un Gino Strada dei nostri giorni” come lo definisce lei, colto nei suoi ultimi anni, segnati da una progressiva alienazione mentale, ma non c’è nulla di agiografico nel modo in cui Marasco lo racconta. Palasciano è un personaggio tragico, spaccato tra la vocazione alla cura e la lacerazione interiore, è un uomo che ha creduto nell’etica come destino, ma che si trova di fronte a un mondo dove la sola etica non basta. Accanto a lui – o forse meglio: al di là di lui – c’è Olga – “lo spirito della narrazione” - compagna, presenza muta e insieme fondamentale. “È colei che guarda, che assiste, che sopravvive alla frattura e che conserva il filo della memoria, perché questo è, in fondo, il nucleo profondo del romanzo: la memoria come spazio di resistenza”. In un tempo di identità liquide e cronologie approssimative, Di spalle a questo mondo riafferma che ricordare non è ricordarsi, ma tenere viva la materia del passato. Non la nostalgia, dunque, ma la lotta contro l’oblio. “Il tempo, in quelle pagine – aggiunge Marasco - ha la sua importanza. Si pensi a Ferdinando che agisce tra le pieghe del tempo, un metodo persistente e lucido di una nuova forma di conoscenza”. “Fondamentale è poi per me il tema della follia che è una forma di lucidità estrema. In questo romanzo è come una nuova forma di gnosi, uno sguardo chirurgico e coraggioso sulla realtà. L’ho scolpito con l’energia della poesia e della psiche e non poteva essere diversamente. Il registro lirico supera gli altri: c’è un’alternanza diversa dal comico al tragico, una presenza poetica e la poesia stesa, qui come altrove, ha un orecchio in più, è più diretta, gioca sugli archetipi che sono istintivi”. La lingua utilizzata dalla Marasco viene da lontano: non solo dalla tradizione letteraria napoletana (da Ortese a Patroni Griffi), ma anche da una certa mistica della parola che attraversa l’Italia minore, quella che non ha fretta di arrivare, ma pretende di durare. In quelle pagine il silenzio ha la sua importanza, “La parola – ci spiega lei - è sempre sull’orlo dell’indicibile, è la prima forma di claudicatio con cui tentiamo di ricreare il mondo: è necessità, è desiderio, è un luogo in cui non siamo ancora arrivati. Quando scriviamo, questo lo dobbiamo ricordare”. Napoli è al centro di questa storia, “una città che per me è anche l’espressione di una rivolta necessaria”. “Sono una napoletana sui generis, quella che amo raccontare è una città che sono in molti a non conoscere. È qualunque città del sud del mondo che contiene rivolta, pensiero, mondi, disastri e capacità di fare arte e cultura”. Il Campiello, con questa scelta, ha dunque sorpreso e non è la prima volta. In una cinquina forte ma eterogenea (tra gli altri: Stassi, Pareschi, Prunetti, Belpoliti), premiare Di spalle a questo mondo è stato anche un segnale politico, un gesto che ci ricorda che la letteratura può ancora essere una forma di pensiero e non solo intrattenimento colto. Quella di Marasco è una letteratura che si assume un rischio formale, umano ed esistenziale e oggi, in un panorama narrativo dove spesso tutto deve essere “relatable”, digeribile, spendibile, questa è già una vittoria, ma non solo. È anche un invito a tornare a leggere senza farsi portare per mano, a riabituarsi al disordine, a guardare il mondo non solo in faccia, ma anche di spalle, perché, come insegna questo libro, certe verità si colgono solo quando smettiamo di cercarle dove tutti guardano.
63esima edizione del Premio Campiello Di spalle a questo mondo (Neri Pozza) di Wanda Marasco ha ottenuto 86 voto. Al secondo posto si è classificato Fabio Stassi con “Bebelplatz” (Sellerio) con 83 voti, seguito da Monica Pareschi con “Inverness” (Polidoro) con 58 voti, Alberto Prunetti con “Troncamacchioni” (Giangiacomo Feltrinelli) con 36 voti e Marco Belpoliti con “Nord Nord” (Einaudi) con 19 voti.